Gli strumenti di un’orchestra tentano la nota d’accordo, mentre si alza il sipario e una semplice scritta stilizzata informa il comodo spettatore sul luogo e il tempo del grande spettacolo cui sta per assistere; da questo momento, un anacronistico pastiche barocco darà vita a un favoloso groviglio di mutamenti scenografici, in cui attori-burattini si muoveranno portati da fili invisibili. Una vertiginosa finzione dentro la finzione, un variopinto carillon di sgargianti sfilate, un immenso teatro di posa in cui si annulla la percezione dello scorrere del tempo: ecco l’ammaliante gioco del regista Joe Wright: «Per me ogni film è un’occasione per imparare. Insieme a Tom Stoppard abbiamo pensato di poter entrare meglio nel cuore di Anna, di Levin e di tutti i personaggi, prendendo in considerazione l’amore nella società imperiale russa negli anni settanta dell’Ottocento. I fili narrativi che abbiamo scelto funzionano come una sorta di doppia spirale, si attorcigliano uno attorno all’altro in un ritratto a più livelli di una comunità». Il risultato è una magica rivisitazione del celeberrimo romanzo di Tolstoj, capolavoro che cattura uno scorcio di Impero russo negli anni settanta dell’Ottocento, epoca in cui s’avverte la fine imminente di ideali e sistemi, con la sensazione che «l’amore romantico sarà l’ultima delle illusioni del vecchio ordine»: i personaggi mutano la cartacea grandezza ieratica in favolosa leggiadria e fragile intimità, attraverso svolazzi e fruscii d’abiti che perdono luminosità nel passaggio dalle scene collettive ai soliloqui nel chiaroscuro.
Teatralità manifesta negli ampi gesti che vanno dalla caricata vestizione-spoliazione di indumenti e accessori alle suggestive coreografie delle scene di ballo, in cui lo spettatore viene condotto per mano in mezzo allo sfarzo; coreografato anche l’altro grande emblema di una Russia ancora lontana dalla rivoluzione, il lavoro, nella precisa sincronizzazione di impiegati alienati nella ripetitività dei loro gesti, o nella più naturale fatica di contadini minuscoli in mezzo alla vastità dei campi. Le porte che continuamente aprono varchi e passaggi all’interno dell’impianto scenico creano confusione di spazi e accelerazione concitata, mantenendo costante quella tensione che sta alla base della buona riuscita dello spettacolo. Perfetto nel suo romanzesco equilibrio il bilanciamento tra le due storie parallele, le due “famiglie infelici”, ognuna a suo modo: da una parte, Stiva, fratello di Anna, la moglie Dolly da lui tradita e Kitty, sorella minore di quest’ultima; dall’altra, Aleksej Karenin, preso dagli affari di Stato, con il figlio Serëža, profondamente legato alla madre. Mosca e San Pietroburgo vengono rappresentate attraverso fondali dipinti e stazioni “ricostruite”, ma è subito il treno a imporsi come bestiale protagonista, fin dall’incidente che vede coinvolto un operaio ferroviario che poco prima aveva guardato negli occhi la stessa Anna; sul vagone avviene l’incontro con l’affascinante conte Vronskij, e sempre il treno sarà il simbolo di una continua oscillazione tra la tentazione a lasciarsi andare a smodate passioni e la razionale, ma più debole, convinzione di poter mantenere il controllo, tant’è che il fischio del treno risuonerà più volte nella testa di Anna come avvertimento o presagio dell’inevitabile rovina.
Teatralità esasperata, poi, spinta fin quasi all’assurdo, nella stupenda scena della corsa di cavalli: i cavalieri sfilano sui loro destrieri con un girotondo dentro la platea, poi il forsennato movimento di polso con cui Anna sbatte il ventaglio annuncia la carica degli zoccoli, finché la tensione si rompe al momento della caduta di Vronskij, a causa di quell’urlo con cui lei si compromette apertamente agli occhi della buona società, senza che valgano più a qualcosa gli avvertimenti del marito, deciso a redarguirla sui pettegolezzi che potrebbero circolare. Keira Knightley (che ha già lavorato con Wright in Espiazione e Orgoglio e pregiudizio) è come sempre stupenda nel giocare il doppio ruolo di ingenua ragazza travolta dai sentimenti e di femme fatale altera ed elegante; è la donna misteriosa che nasconde lo sguardo intrigante dietro la veletta del cappello, ma che poi rivela un’infantilità inappagata dietro il sorriso imperfetto e smaliziato. Si può dire che il grande teatro sia stato allestito apposta per lei, che vede la sua vita come un’incomprensibile rappresentazione, confondendo dolorosamente i piani della verità frustrante e del desiderio da soddisfare, scoprendosi a volte spettatrice altre volte attrice diretta più da manovre altrui che dalla propria volontà. Estasiata dall’amore finalmente trovato nell’abbraccio di Vronskij, vive tale sentimento sul baratro, conscia del fatto che un passo in più potrebbe portarla alla dannazione nascosta dietro a una gioia incommensurabile: «Non ci può essere pace per noi, solo il tormento o la più grande felicità».
Il suicidio è la liberazione dal terrore di una ricaduta nell’infelicità, e le verrà incontro quando scoprirà di essere rimasta sola, estraniata dalla società, gettata via persino dal suo amore. Quasi irriconoscibile Jude Law nei panni dello sconsolato Karenin, inerme e prostrato di fronte alla bellissima moglie, da tutti etichettato come un “un sant’uomo”, ma poi martire, indotto al perdono da un’inspiegabile magnanimità che alla fine tocca l’estremo limite di umana sopportazione; è il buon cristiano che ancora crede nel sacro valore dell’unione coniugale, vincolo che solo un crimine contro Dio potrebbe spezzare, ferito e infine colmo di rancore e disprezzo per quella “donna senza onore” che ha scelto di non salvarsi. Aaron Taylor-Johnson è lo spavaldo conquistatore ben conscio del fascino che emanano la sua divisa e la sua bella persona, con quegli occhi azzurri che non perdono di vista il bersaglio e le movenze delicate da esperto seduttore; i suoi spostamenti nello spazio seguono le trame di una danza frivola e delicata, che inneggia al culto estetico e ai piaceri sensuali. Questo triangolo è il cuore di un diamante intagliato con cura nelle sue numerose facce, in un accattivante gioco di rifrazioni attraverso cui la luce illumina di volta in volta i vari sviluppi delle vicende di tutti gli altri personaggi, come gli indimenticabili Konstantin Levin (Domhnall Gleeson) e la sua adorata Kitty (Alicia Vikander): la loro storia d’amore faticosamente avviata è il contrappeso positivo alla rovinosa relazione adulterina di Anna, fornisce un placido quadro di tranquillità agreste e serenità coniugale, suggellando la crescita di Kitty, da principessina viziata a moglie e madre dedita alla salvaguardia dell’intimità domestica, e l’appianamento dei dissidi interiori di Konstantin, rincuorato dalla confortevole paternità. Alla fine, lo spettatore sarà dolcemente accompagnato fuori da questo surreale e ipnotico teatro, e potrà portare con sé il saporito ricordo di un festoso carosello animato dalle pericolose ragioni del cuore.