Di rado in tempi recenti il cinema italiano ci offre pellicole per le quali usciamo dalla sala con pancia e mente soddisfatte, il che è quasi un paradosso visto che gran parte della storia del cinema l’ha fatta proprio l’italianissima Cinecittà. Sempre più spesso leggiamo recensioni che demoliscono – il più delle volte a ragione – i nostri film, facendoci perdere la speranza che ci sia qualcosa di nostrano che valga la pena di essere visto. Tuttavia non è questo il caso, infatti l’ultimo film di Daniele Luchetti, Anni felici, è un breve momento di lirismo nel mare di poraccitudine (N.d.A.: grazie a Pier-ef-fect per questo termine perfettamente calzante) della contemporanea filmografia tricolore!
L’ultimo lavoro di Luchetti, fortemente autobiografico, racconta la storia di una famiglia fuori dagli schemi nell’estate del 1974, divisa tra Roma, Fregene, Milano ed il Sud della Francia. Guido è un artista con ambizioni avanguardiste il cui unico scopo nella vita è risultare “non convenzionale”; Serena, moglie di Guido, è figlia di una dinastia di commercianti, ama poco l’arte ma ama moltissimo Guido che cerca di tenere stretto a sé con la sua forte passione carnale; Dario e Paolo sono i figli di dieci e cinque anni, che assistono, loro malgrado, all’eterno duello tra i genitori che si amano alla follia ma che sono incompatibili tra loro. Dario è la voce narrante, Luchetti da piccolo, che armato di una cinepresa super 8 testimonia lo sfasciarsi della sua famiglia in quelli che però sono appunti gli anni felici senza che nessuno se ne renda conto.
Il film è di una bellezza disarmante: il racconto è permeato del fascino degli anni felici, nonostante racconti il declino di una coppia che si ama. Nella continua ricerca di affrancarsi come artista anticonvenzionale Guido non si accorge che sta perdendo Serena, l’unica donna che ama, nonostante i numerosi tradimenti con le modelle che posano per lui; è convinto che lei ci sia sempre, in quanto madre dei suoi figli, in quanto follemente innamorata di lui, in quanto dimentica di sé; ma arriva il momento in cui anche Serena capisce che un po’ di sano egoismo è necessario a sopravvivere e che anche lei deve avere dei desideri, dei sogni, a prescindere da quello che Guido vuole. Inizia così ad allontanarsi da lui, a capire che anche la sua vita merita di essere vissuta e non nell’ombra dell’uomo che ama. Solo allora Guido si rende conto di quanto è ingombrante la sua assenza (e, ironia della sorte, è proprio in quel momento che diventa un vero artista creando un’opera sentita e non pensata).
Guido e Serena si amano e si ameranno tutta la vita, di un amore passionale, carnale e tenero allo stesso tempo, ma non staranno più assieme perché la vita e le sue vicende più amare li hanno separati, mostrando loro l’incolmabile baratro che li separa senza però essere in grado di tagliare il sottile filo che li lega. Il loro sentimento è struggente: fa male vedere come Serena ama Guido sopra ad ogni cosa, nonostante l’eterna fuga di lui dalla vita borghese (nella quale tuttavia sguazza), e fa male il momento in cui lei stessa si affranca dalla schiavitù morale di quell’amore fuggendo da lui; altresì fa male vedere come Guido non si accorge di quell’amore, tutto preso dalle sue dichiarazioni artistiche (ahimè, non seguite da alcuna valente opera) se non quando ormai Serena è lontana: quando cerca di riaverla oramai è troppo tardi.
E tutto attorno la vita di Dario e Paolo, che con occhio critico ed ingenuo, tipico dei bambini più grandi della loro età, capiscono alla perfezione cosa sta succedendo ma non possono fare altro che assistere e subire gli eventi. Nel loro sguardo (che è poi quello del regista da bambino) non c’è alcuna critica verso quei genitori che si dimenticano dei figli, troppo presi dal salvare il loro amore, c’è anzi una sorta di paterna tenerezza, sembra quasi che i ruoli si rovescino; Dario ha solo parole d’amore per Guido e Serena, che non chiama mai papà e mamma, anche quando li ammonisce, anche quando li odia.
Una pellicola diretta magistralmente, senza deliri autobiografici, che racconta i fatti con un occhio di malinconica nostalgia per gli anni felici; un cast eccezionale, con un eternamente affascinante Kim Rossi Stuart, perfetto anche nei panni di un artista fallito come Guido, ed una disarmante Micaela Ramazzotti, capace di far stringere il cuore a chi la guarda con lo sguardo di Serena che capisce prima di tutti che la sua vita sta naufragando; un gusto per l’immagine e l’inquadratura mai strabordante, sempre intimista e lirico che fa respirare poesia anche quando inquadra un freddo atelier d’artista ingombrato da una scultura scomoda come i sentimenti.