Ciao mamma. Sto bene…
Come noi teen-ager negli anni ’80 ci siamo preparati alla vita allontanandoci con mezzi, modi e tempi diversi approdando a quello che facciamo oggi. Un decennio di viaggi che non si fanno più, perché illegali, pericolosi, sorpassati perché la storia ha cancellato certe luoghi o idee, o perché l’età, ormai non ce lo consente.
Posso senza ombra di dubbio dire che gli anni ’80 sono stati il mio luogo di formazione, dato che sono stati il decennio dell’adolescenza e della giovinezza. Ero un’adolescente che trovava sempre più interessante andare che stare, che desiderava muoversi, viaggiare, partire sempre, conoscere persone nuove, in continuazione, un po’ senza pace. Come se essere liberi, spostarsi, incontrare gente fidandosene per principio fosse l’unico modo di stare al mondo. In realtà non si faceva mai nulla di male, non ci si metteva realmente in pericolo, anche se per lunghi periodi non eri reperibile (mica c’era il cellulare), in giro per strada, nelle città, in treno, in aereo, a ballare incontravi gente come te. Tutto sommato posso dire che mi è andata sempre bene, se escludo il furto subito ad Amsterdam, dopo 4 giorni di Interrail, di documenti e biglietto del treno (ma avevo ancora tutti i miei traveller’s check , ironia della sorte) che mi ha costretto al rientro forzato con foglio di via del Consolato Italiano.
Travelers-Cheques
In quei 10 anni ho visto luoghi in cui son poi tornata da più grande, in coppia o con le figlie e sempre penso di aver trasmesso il gusto per quello che si stava facendo e che si andava a vedere. In 10 anni ho visto l’Italia quasi tutta (esclusa la Sicilia), L’Europa più consueta (Spagna, Francia, Germania, Olanda/Belgio, Inghilterra/Scozia, Svizzera, Austria), paesi che non esistono più (L’Unione Sovietica e la Yugoslavia), Gli Stati Uniti (California e New York). Ho utilizzato ogni mezzo possibile: il traghetto, il treno, l’aereo, il pullman, i piedi, la moto e l’auto – naturalmente non mia, la patente l’ho presa nel decennio successivo. Ho dormito in tenda, in roulotte, in hotel, in ostelli, in treno e in stazione, in dormitori scolastici e universitari ma quando era possibile, ospite a casa di amici e conoscenti. Era più semplice fare cose divertenti, senza necessariamente spendere. Per viaggiare ho vissuto con una famiglia francese per un mese, ho fatto la baby-sitter in roulotte in Sardegna, mi sono aggregata ai viaggi dei miei genitori o di mia nonna (che era molto viaggerina) finché ho potuto, ho fatto vacanze studio negli Stati Uniti e concorsi universitari per corsi con soggiorno gratuito in Italia e all’estero. Ho ospitato anche solo a cena gente conosciuta il giorno prima al mare, nella speranza di venir ospitata a mia volta in Inghilterra, Olanda o Germania, cosa che poi non è avvenuta. Ho chiesto ospitalità ad amiche di amiche che non conoscevo e mi hanno tenuto in casa anche per 20 giorni. Ho avuto amiche di penna a Genova e Los Angeles che poi sono andata a trovare per un week-end. Ho fatto anche vere amicizie con persone che fanno ancora parte della mia vita.
In questa lista della spesa del movimento, però, ci sono dei punti fermi che analizzerei in ordine cronologico, come un itinerario di viaggio.
Partenza: 1980 – Viaggiare in libertà totale: in Ciao senza patentino e senza casco. Sono entrata negli anni ’80 per Natale del 1979: avevo da poco compiuto 14 anni e mi era stato promesso, di conseguenza ad una mia insistenza iniziata sin dal 1977 che avremmo comprato un Ciao usato appena avessimo trovato l’occasione di un buon rapporto qualità prezzo. Il Ciao Piaggio era il modello allora più diffuso di motorino 50, era poco più che una bici elettrica per carrozzeria e velocità (il mio non ha mai raggiunto i 40 orari in discesa). Ma allora per girarci bastava avere il libretto che riportasse il numero di telaio, il bollo e un documento attestante l’età del guidatore. Non sono nemmeno sicura che occorresse avere un’assicurazione. Certo non c’erano né targa, né casco obbligatori. Una volta compiuti i 14 anni era naturale e senza impegno portare un Ciao. Serviva solo averlo. Era facile perché a presa diretta, ma si metteva in moto pedalando e spesso era ingolfato, il che significava una sudata pazzesca. Poi partivi, senza casco, senza meta, senza responsabilità. Andavi dove volevi (chiaramente in distanze che non lo facessero fondere). Vietatissimo andare in due, ma lo facevamo tutti. Se ti fermavano la multa era di 1000 lire (prima di caricare o salire con qualcuno, si stabiliva che si sarebbero pagate metà per uno), un pieno di miscela valeva 500 lire nel 1980, per diventare di 2000 lire col tempo. Il mio Ciao lo comprai per 100.000 lire (nuovo il Ciao PX appena uscito ne costava 380.000, se non ricordo male) da un pazzo scatenato che ci girava sempre in impennata da 7 anni e che lo aveva dipinto di turchese (bruttissimo, ma ce lo avevo solo io in tutta la città). Ricordo solo un viaggione una domenica pomeriggio, un tentativo di andare in gruppo (una quindicina fra motorini e Vespe) da Ravenna a Bertinoro. Io non sono arrivata nemmeno a San Zaccaria, perché ero troppo lenta e il gruppo non poteva aspettare. Mai nella vita ho ritrovato il senso di libertà in un mezzo di trasporto come nel Ciao, il non plus ultra è stato dopo il 1984 quando comprai negli States il primo Walkman. Cantavo a tutto volume con le cuffiette, il vento nei capelli. Scegliendo strade poco trafficate o girando a vuoto per le vie della città. Credo che quel Ciao sia vissuto fino al 2000 (aveva 27 anni) e sia finito a Roma quando mio fratello ha abitato lì per due anni senza riportarlo a casa.
Oggi non si può più perché: quel tipo di libertà senza regola nei mezzi di trasporto è scomparsa. Anche in bicicletta ti multano ormai. Non esiste più il Ciao, non esistono più le cassette, non esiste più la miscela; patentino, casco, targa, assicurazione sono obbligatori. E poi come ci porterei su le figlie? Sentimento suscitato: rimpianto.
Christiana F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino
Possibilità di smarrimento – 1981: Viaggi tossici: l’eroina. È un viaggio che non ho fatto mai, mai vorrei fare e mai farò. Eppure per la mia generazione il mondo del tossico dei primi anni’80 aveva fascino. Conoscevo tante persone che hanno iniziato a farsi allora. Erano ragazzi, miei coetanei con uno stile di vita che inizialmente aveva un suo fascino: abbigliamento un po’ trasandato e dal tocco un po’ freak, un gusto per la musica e per certi luoghi in cui si andava a ballare che altri non avevano a 15 anni. E mi facevano pensare alla libertà: libertà di costumi, di orari, menefreghismo verso i giudizi dei così detti normali. Era come essere ancora alla fine degli anni ’60 ma con una marcia in più: avevano potuto scegliere e avevano rifiutato l’edonismo serpeggiante. In realtà l’attrazione per quel mondo non me la so spiegare veramente. Mi piacevano i capelli lunghi, i jeans bucati, lo sdegno totale per i fighetti, la fissa per il funky, l’afro o per la musica composta da tossici vivi o morti, come Lou Reed, Jim Morrison, Jimi Hendrix, o Il Bowie più lisergico. Era l’inizio di un decennio che avrebbe decimato questi ragazzi, perché si poteva facilmente morire di overdose e purtroppo, chi è stato risparmiato, spesso è morto di Aids. Si è iniziato a parlare di contagio solo a metà degli anni ’80, quando orami ci si era scambiati siringhe, fatto sesso più o meno inconsapevolmente con un sacco di gente. E poi gli anni’ 80 piano piano son diventati gli anni della Milano da bere, della cocaina, un droga altrettanto abominevole, come lo stile di vita Yuppie a cui era legato il suo consumo. Diciamo che il mondo degli eroinomani mi ha sempre attratto come certi viaggi in luoghi poveri e impervi: bello come turista andare a vederli, ma senza mai volerne veramente farne parte, partecipando solo alla parte superficiale riservata a chi con quella vita, in profondità non ha nulla che vedere. Mi rimangono di tanti amici solo il ricordo di racconti surreali o di un ballo fatto insieme, quando ci si incontrava dove suonavano certa musica.
Oggi non si può più perché: veramente non si poteva né doveva anche allora e in base a dati recenti, sta tornando in auge fra gli adolescenti, depurata dell’immagine di paradiso artificiale o di siringhe sanguinanti. Si fuma in gruppo, e via. Distrugge le menti comunque. No, non si può. Sentimento suscitato: tristezza per gli amici perduti.
Francobollo commemorativo del mausoleo di Lenin
Era glaciale – 1982: Capodanno a Mosca all’epoca di Brèžnev- Se penso a quella settimana a Mosca a cavallo del capodanno del 1981 sul 1982, non ricordo di aver mai visto la luce. Solo buio in una città scarsamente illuminata dalla luce elettrica e solo cielo grigio, neve, ghiaccio, insomma una vera cortina di ferro. Era l’epoca di Leonìd Il’ìč Brèžnev, che sarebbe poi morto entro la fine del 1982. Insomma, come mi sia venuto in mente a 16 anni di andare con la nonna e il C.R.A.L. del Comune di Ravenna a passare il capodanno nella capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, non l’ho ancora capito. Penso tutto facesse parte dello spirito per il quale andare a vedere è meglio che restare e mi sono aggregata. Ho visto alcune delle cose più belle del mondo e val la pena averle viste: la galleria Tretyakov, il Cremlino, un balletto al Teatro Bol’šoj, trapeziste bellissime volteggiare sopra giganteschi orsi bruni nel circo di Mosca. Ho visto una piscina tonda, all’aperto del diametro di 100 metri dove tutta la gente faceva il bagno con una temperatura esterna di -30 ed io pensavo che mi sembrava un gigantesco piatto di pastina in brodo. Avrei potuto far a meno, ma ho visto anche la salma di Lenin, facendo una fila di un’ora sulla Piazza Rossa, incolonnati a due e due, nel silenzio e fra le raffiche di vento, quando era vietato attraversare la piazza. Comunque mentre si procedeva verso il mausoleo non si poteva né parlare, né fumare, né masticare una cicca. Ho fatto un giro in Trojka con pic-nic a base di salmone e caviale sempre a -30, per loro temperatura normale, ma non per me e mia nonna mi ha permesso di pasteggiare a Vodka, anche perché non c’era altro e l’acqua a quella temperatura non resiste allo stato liquido. Di tutto questo mi resta però dentro lo sguardo di ghiaccio e disprezzo delle ragazze per i miei pantaloni e maglioni colorati, per il mio piumino fucsia, per i Moon-boot caldi e strani. A 16/18 anni, forse non gli interessava avere un’ottima istruzione assicurata, buone cure mediche statali o un posto di lavoro garantito. Il loro sguardo diceva: stronza, ti deruberei, se non rischiassi la vita. All’epoca gli uomini ancora si portavano a letto le bellissime moscovite sguardo glaciale in cambio di un paio di collant o una bottiglietta di profumo comprata al supermercato. Ogni volta che salivi in ascensore da qualche parte o entravi in un museo o in un palazzo da visitare c’era qualcuno che ti guardava male per quello che avevi. E non avevo gran che, rispetto ai miei coetanei italiani. La stessa sensazione che ho provato visitando l’Africa, quando però la gente ti viene incontro con un sorriso e tu vorresti donargli il mondo. Lì ti sentivi privilegiato, ma capivi che per loro eri un nemico non per quello che eri, ma per quello che avevi. Al ritorno ho pensato che sarei voluta andare in California al più presto. E che la miglior forma di governo possibile poteva essere forse il comunismo, ma Emilia Romagna style: ottime scuole pubbliche, ottima sanità pubblica, buone opportunità di lavoro, ma una vita come in Riviera o a Bologna: con tante cose divertenti da fare, tante luci, tanto buon cibo per tutti. Libertà, apertura e allegria, garantendo opportunità a tutti.
Oggi non si può più perché: fortunatamente non esiste più l’U.R.S.S. e i russi non hanno più problemi di shopping. Anzi sono insieme agli arabi i maggiori sostenitori dell’industria del consumo lussuoso. Ti guardano comunque male. Il clima di ghiaccio non è cambiato. Sentimento suscitato: lasciamo nel passato quel che è passato.
Risparmio – 1983 – Viaggiare “a” gratis: l’autostop. Viaggiare in Autostop negli anni ’80 era ancora possibile, soprattutto nella riviera romagnola, dove c’erano tanti giovani arrivati in vacanza senz’auto, e per spostarsi dai campeggi, dalle pensioni più economiche verso le spiagge, i locali spesso non c’erano mezzi pubblici. Era possibile perché sia chi chiedeva il passaggio, sia chi lo offriva non temeva. Anche perché i tossici, che oltre che un passaggio avrebbero potuto chiedere soldi, anche in malo modo, allora erano riconoscibilissimi. Nemmeno un automobilista avrebbe caricato uno “sballato”. E si tendeva a credere che se si chiedeva un passaggio in 3 o 4, nessun malintenzionato fuori di testa si sarebbe fermato per manifesta inferiorità numerica. La cosa è passata del tutto di moda da sola, forse col crescere della diffidenza. Anche perché a un certo punto siamo tutti cresciuti, avendo una moto, un’auto o un amico che ci passasse a prendere. Comunque quando ho preso la patente ho fatto salire qualche ragazzina che aveva perso la corriera per il mare. Pian piano non se ne sono più viste.
Oggi non si può più perché: non lo fa più nessuno e nessuno è più disposto a fermarsi. Quest’inverno, in montagna, lasciate a piedi dal pulmino della scuola di sci, con scarponi ai piedi e gli sci sulla spalla, io e mia figlia di 8 anni abbiamo tentato un autostop verso le piste che erano a 2 km. Si è fermata, a poche centinaia di metri dall’arrivo, una mamma che come me portava la prole a lezione. Nessun simpatico giovane o coppia si è fatta impietosire nemmeno dalla bambina. Sentimento suscitato: in misto di ribrezzo e nostalgia, come per le spalline imbottite e la frangia phonata.
Alamo Square, San Francisco – California
Some like it hot! 1984 – California: buona la prima. Questa è la voce meno in tema di tutte. Perché questo è il viaggio di sempre. Certo la California è stata per me la meta della vacanza-studio post maturità, il luogo sognato e desiderato come solo il Ciao. All’inizio del 1982 ho aperto un libretto di risparmio dove sono confluiti i denari dei miei lavori stagionali per tre estati. Poi ad ottobre son partita. Allora scoprii che era tutto quello che immaginavo era proprio così – e ancora in Italia era poco presente: surfisti, skater, e loro stile di vita easy going, musica rock e multi – sale aperte 24 su 24, spazi aperti, mare e natura, grandi centri commerciali e parchi di divertimento, comunità hippy e letterarie, gente senza arte ne parte in cerca di popolarità televisiva o cinematografica, obesi e salutisti, comunità gay e veterani dell’esercito, derelitti e ricchi oltre ogni misura, natura aperta e città infinite. Sembrava che fosse possibile per chiunque convivere con il proprio opposto divenendo tutti indistinguibili una volta arrivati sulla spiaggia in infradito e calzoncini. Questo è l’unico viaggio che ho rifatto. La prima volta sola, la seconda in due (col marito), la terza in 4 (con marito e figlie). È un viaggio che faccio sempre pensando di tornare ancora là, perché ogni volta mi si ripresenta un pezzo di mondo che si è evoluto, eppure è sempre uguale. Ogni volta ho ritrovato tutto, anche nel 2008, in piena crisi economica e in piena campagna elettorale pro-Obama. Vendevano gadget per sostenerlo i neri sgarrupati di Downtown Los Angeles, le nonne democratiche in abito di seta di Beverly Hills, così come i librai gay di San Francisco e gli ambientalisti dell’istituto di Oceanografia di La Jolla a San Diego. Solo una cosa non è stato più possibile fare: arrivare e ripartire con le compagnie aeree con cui si volava negli anni’80. Non ci sono più la TWA, con cui ho volato nel 1984 e Pan Am, su cui il network televisivo ABC ha realizzato un serial nel 2011.
Oggi non si può più perché: certo che si può. Sentimento suscitato: ritorno al futuro, sempre presente.
stazione di Bologna nevicata del 10 gennaio 1985
Binario di gruppo – 1985: Gli anni del treno part one: pendolare verso l’università. L’Università nell’anno accademico ‘84/’85 (fino al 1988) non era esattamente uguale a quella che conosciamo oggi. Innanzi tutto le facoltà offrivano una laurea dopo un percorso di studi di 4 o 5 anni, non esistevano lauree brevi, trienni e bienni. Esistevano corsi e piani di studio, in cui c’erano fondamentali, cioè esami su materie obbligatorie per tutti e facoltativi, dove sceglievi tu quali corsi seguire. I corsi iniziavano il primo lunedì di novembre e terminavano l’ultimo venerdì di maggio. Le sessioni d’esame erano 3: estiva (giugno/luglio) autunnale (fine settembre/primi di dicembre) e invernale (fine gennaio/primi di aprile). Non potevi dare un esame in una materia il cui corso di quell’anno accademico non fosse ancora terminato. Ad esempio, il primo anno non potevi dare esami fino a giugno. Ovvio che l’idea iniziale, per risparmiare, ma anche perché sembrava fattibile, è stata di acquistare un abbonamento per studenti e fare la pendolare. Seguire 5 materie e 2 lingue (con frequenza obbligatoria) mi impegnava dal lunedì mattina con treno alle 8 al venerdì pomeriggio con treno che arrivava a casa alle 19,30. Fu chiaro da subito che in treno non si riusciva a leggere nemmeno il giornale, figuriamoci se fosse stato possibile studiare anche le materie più appassionanti. In treno si socializzava, si occupavano interi scomparti, si giocava a carte, a Trivial, al gioco dei film (pare strano, ma il tragitto Ravenna-Bologna, pari a 80 km circa non durava mai meno di un’ora e 40, quindi ogni giorno passavi in treno dalle 3 alle 4 ore). Poi nel gennaio 1985 si verificò una nevicata e un periodo di mal tempo lungo e terribile come quello del febbraio scorso. I treni non furono sospesi, ma pur partendo alle 8 – anche se sotto un fitta nevicata - da Ravenna, arrivammo nella bufera Bolognese esattamente 8 ore dopo, verso le 16, senza aver mangiato e infreddoliti. Avevamo perso le lezioni della giornata, ma soprattutto dovevamo restare sul treno se volevamo tornare a casa. Ci andò meglio che all’andata e arrivammo per le 20e30. Quando dopo qualche giorno successe ancora, l’economico abbonamento venne sospeso nel mese di febbraio e iniziai a cercare casa a Bologna. Resta il fatto indiscutibile che il treno è un luogo che suggella amicizie.
Oggi non si può più perché: sopraggiunti limiti di età, non sono più studente. E in più non so se esistano ancora facilitazioni per studenti fuori sede o lavoratori pendolari, certo la tratta Ravenna-Bologna non si è evoluta dal punto di vista dei tempi di percorrenza. In compenso non è più economica come allora. Sentimento suscitato: non sento nessuna mancanza. Non la sento da allora, dal momento stesso in cui trovai casa a Bologna.
il libretto di viaggio nella versione inglese
Binario internazionale – 1986: Gli anni del treno part two: L’Interrail. In realtà non sono mai riuscita a fare un vero Interrail. Ci ho provato nel 1985, ma il 4° giorno ad Amsterdam son stata derubata della bustina contenente Il biglietto e i documenti proprio alla stazione, mentre stavamo per ripartire verso l’Inghilterra e la Scozia. Ho salutato le amiche e son dovuta rientrare in Italia con il classico foglio di via del consolato. Così ho ripetuto con un’altra amica l’anno dopo, pensando di fare il giro al contrario. Ma avendo scelto Londra come prima tappa, ed essendo ospiti a casa di ragazze inglesi che avevano fatto le parrucchiere in Italia, abbiamo finito per restare a lì per 20 giorni, visitando Cambridge, Stonehenge, Greenwich, ma tornando sempre a “casa” a Elsham Road, fra Sheperd’s Bush e Kensington, per dormire. Volevamo non rientrare più in Italia mantenendoci facendo da cavie per le scuole da parrucchieri o piegando maglie in qualche negozio di Oxford Street. Alla fine abbiamo ceduto e siamo rientrate, passando da Belgio e Olanda per terminare il viaggio a Monaco di Baviera all’Oktoberfest. Ma una volta arrivate lì, non avevamo nemmeno più i soldi per mangiare e, senza nemmeno andare alla festa della birra, dopo 2 ore siamo ripartite. Il poco rimasto lo abbiamo investito nel costo obbligatorio del tragitto, non compreso nel prezzo del biglietto mensile, dal confine italiano a casa. Appena scesa a Ravenna ho preso cappuccino e cornetto: non mangiavo da 36 ore. Comunque, divertimento alle stelle.
Oggi non si può più perché: sopraggiunti limiti di età, sia miei (non ho più 26 anni da oltre 20 anni), che dell’Interrail. Non sono sicura che esista ancora, in ogni modo già qualche anno dopo non era più come nel 1986. Per qualche anno fu possibile, con sole 120.000 lire viaggiare 30 giorni di seguito in tutta Europa (compresa Inghilterra, altrimenti costosissima), spendendo il 50% nelle tratte italiane fino al confine o sui traghetti da e per le località Europee. Fino a 26 anni compiuti. Sentimento suscitato: sono felice di averlo fatto. Son felice non doverlo rifare.
le mitiche cassettine
Carovane dance – 1987 – Disco Disco. Alla ricerca del ballo. Sin dalla più tenera età (l’estate prima dei miei 14 anni) oltre insistere per avere un Ciao, ho insistito per poter andare a ballare. Per tutto il decennio, in Romagna, la cosa bella e divertente era che il locale da ballo era parecchio segmentato. C’erano i posti con serate funky-afro, dove trovavi al mix D.J. sopravissuti della ex Baia degli Angeli, Mozart, Rubens, Bob e Tom, o altri con lo stesso stile, come Spranga e l’Ebreo, c’erano le mete rock, come lo Slego di Viserba o il sempre vivo Vidia di Cesena, c’erano i club più Dark e New Wave come l’Aleph di Gabicce o l’Insomnia di Rimini. Nei sabati d’estate si poteva andare in quelle discoteche con musica più commerciale, ma che all’aperto erano veramente da vedere, comela Villa delle Rose o il Peter Pan. Ci si trovava verso le 23 nel piazzale di un supermercato, vestiti di tutto punto, poi in fila con 4 o 5 macchine piene, ci si dirigeva verso Rimini, Riccione, Gabicce. In quelle occasioni si faceva chiusura e poi si andava a far colazione all’alba, magari a Viale Ceccarini. Nel viaggio di ritorno era obbligatorio mettere su la cassetta con la musica del locale in cui si era stati. Ma, tranne chi guidava, si finiva per dormire tutti.
Oggi non si può più perché: non ci sono più le disco di una volta. E quelle che ci sono, sono frequentate da mia figlia e da suoi coetanei. Anche se la musica che preferivo allora e che vorrei sentire anche adesso, è sempre quella del Vidia e dello Slego (che anche se non c’è più ma rivive al Velvet). Sentimento suscitato: con la musica nel cuore. Potendo, 4 o 5 ore di Slego le rifarei anche questa sera.
Hull University campus
Trimestri stranieri – 1988 – Erasmus: The Loud Italians. Era la tarda primavera del 1987, camminavo verso casa, in via Centotrecento a Bologna e un manifesto mi sorrise: partiva quell’anno la selezione per questo progetto European Region Action Scheme for the Mobility of University Students, per tutti da allora a oggi semplicemente Erasmus. Allora bisognava partecipare ad una prova d’inglese, compilare la domanda e aspettare le graduatorie. Le destinazioni e i periodi da trascorre all’estero offrivano poca scelta: Olanda o Inghilterra per un mese in estate, per un trimestre o per un intero anno accademico. Allora era solo un’esperienza di vita, perché nulla di quello che riuscivi a fare in Università straniere veniva riconosciuto in quelle italiane. In inglese me la cavavo ed entrai in graduatoria per l’Inghilterra, mettendo come preferenza il periodo di un mese, in seconda posizione il trimestre. L’idea di fare un anno senza dare esami non l’avevo nemmeno contemplata. Non ci avevo più pensato e i primi di aprile del 1988, mentre stavo preparando un esame per il giorno dopo, una telefonata dalla segreteria dell’Erasmus mi avverte che si era liberato un posto per passare un trimestre all’University of Hull, England. Dovevo decidere se accettarlo in 24 ore e partire nel giro di 2 settimane. Una fortuna sfacciata, innanzitutto perché quello è stato l’unico appartamento studentesco dotato di telefono in cui io abbia abitato e io mi trovavo a casa in quel momento. Ero entrata in graduatoria anche per il mese dell’estate prima ma al numero di casa a Ravenna non mi avevano potuto avvisare. Era una decisione difficile da prendere: mi mancavano gli ultimi 4 esami e pensavo di darne 2 inquel trimestre e 2 dopo l’estate, mi avevano appena accordato una tesi sperimentale per la quale era richiesto un impegno di almeno un anno al termine degli esami … inutile dire che è stato difficile decidere, ma il giorno dopo ho rifiutato il voto d’esame e ho deciso di partire. Hull era una zona depressa nel nord-est inglese, una cittadina industriale e portuale che allora tutti conoscevano per via di un gruppo in voga, gli Housemartins e del loro primo album “London 0 – Hull 4”. Uno dei componenti era Norman Cook, oggi Fat Boy Slim. Sempre di Hull erano gli Everything but the girl. Insomma tanta depressione thatcheriana aveva generato ottima musica, ma soprattutto una buona università. Ci ritrovammo unici 8 italiani, 4 da Bologna e 4 da Pavia, in mezzo a migliaia di inglesi. In realtà facemmo gruppo in 5 e diventammo subito “Proud to be Loud”. Ognuno viveva a carico dell’Università nelle classiche terraced house con altri 5 studenti inglesi; avevamo 20 sterline a settimana per un attività di lettorato che svolgevamo per 4 ore settimanali e tanto tempo per andare in giro a cazzeggiare, perché non potevamo assistere a lezioni o fare esami. In verità ho raccolto un sacco di materiale per la tesi nella fantastica biblioteca già allora computerizzata di 7 piani. Ho seguito le lezioni di preparazione per un eventuale test di accesso per stranieri alle università inglesi. Ho conosciuto gente di tutto il Regno Unito e, naturalmente ho viaggiato: York, Salisbury, Scarborough, Withby, Edinburgo e 2 week-end a Londra. Son tornata in Italia che parlavo correntemente inglese, la mia pronuncia migliore di sempre, e che riuscivo a bere un sacco di birra. Non c’era party in cui non fossimo invitati, non c’era venerdì sera e martedì in cui non si andasse a ballare. Mi è rimasto un amore smodato per gli inglesi, per il verde e il grigio del cielo, per le rovine di chiese e castelli, per la vivace scena musicale e per le accoglienti città piccole e grandi, per gli insegnati preparati e gli studenti timidi ma sarcastici. Per l’ottima birra e il pessimo cibo della mensa, per i pullman e i treni sempre in orario, per i bibliotecari sempre disponibili e vestiti usati che si trovavano ai mercatini di Oxfam, dove facevi del bene spendendo poco.
Son tornata il 2 luglio, di buon umore e rilassata, e come mi ero prefissa, sono riuscita a terminare gli esami entro la fine dell’anno. E poi il 21 dicembre ho lasciato casa a Bologna.
Oggi non si può più perché: sono fuori tempo massimo. E va bene così. Sentimento suscitato: Dio Salvi la Regina, tutto il suo popolo e tutta la sua terra.
Checkpoint Charlie
Viaggio nella storia – 1989 – L’ultima notte a Checkpoint Charlie. Sono uscita dal decennio dalla porta principale, passando l’ultimo capodanno degli anni ’80 per entrare negli anni ’90 a Berlino, a meno di 2 mesi dalla caduta del muro che aveva diviso la zona Est da quella Ovest per 28 anni. La mezzanotte alla porta di Brandeburgo con almeno un milione di persone che entravano e uscivano dai buchi o scavalcavano è stata un’emozione paragonabile a poche altre. Sapevi di essere realmente nella storia, perché da quel momento la città, la Germania, l’Europa, il mondo intero come lo avevamo conosciuto fino ad allora, non sarebbe stato più lo stesso. Il muro era caduto il 9 novembre e noi attraversammo il tristemente noto Checkpoint Charly dverso le 22 del 30 dicembre. Eravamo arrivati col camper per errore a Berlino Est e non c’era alcuna possibilità di mangiare. Parcheggiammo e per evitare code in camper, attraversammo i confini verso l’ovest a piedi (dove incontrammo Giuliano Ferrara avvolto in una mantella nera). Se a uscire e cenare avevamo impiegato poco, al ritorno ci ritrovammo fermi in una fila pedonale di più di due ore, perché ancora il controllo era meticoloso, estraniante e burocratico. I due avamposti, sono stati smantellati nel ’90, ma il Checkpoint Charly è stato ricostruito al museo del Muro di Berlino.
Oggi non si può più perché: fortunatamente è cambiato il mondo. Ma son contenta di aver sentito il rumore dei martelli che spaccavano pezzi di muro e di conservare il timbro delle due dogane in un vecchio passaporto. Sentimento suscitato: la storia siamo noi, nessuno si senta escluso.
atc Bologna: a contare i passeggeri
Arrivo – 1990 – Consegnata alla età dalla ragione dalla rete ATC di Bologna. Il 4 aprile 1990 sono stata consegnata alla mia vita matura: mi son laureata. Ed è iniziata la vita adulta, perché in quel decennio ho preso la patente (perché per andare a lavorare serviva un’auto), mi son sposata, son stata assunta in regola a tempo indeterminato (a 5 anni dalla laurea) e ho avuto la mia prima figlia. L’ultimo sprazzo di stupidera adolescenziale legata a viaggi e mezzi di trasporto l’ho avuta tutto il mese di marzo, dopo aver depositato la tesi. Ho partecipato al Censimento Delle Passeggeri Della Rete Urbana Degli Autobus Bolognesi. In soldoni, il lavoro è consistito nel passare un mese intero 6 o 4 ore consecutive al giorno su autobus di linea contando i passeggeri che salivano e scendevano ad ogni fermata. Eravamo 3 rilevatori su ogni bus, uno per porta e al capolinea producevamo un unico documento. Lo scopo era ridefinire la mappa delle linee, i luoghi delle fermate e il numero di autobus. In verità mi son divertita. Eravamo 10 equipaggi e miei colleghi erano due simpatici studenti fuori sede e fuori corso, uno di Pescara e l’altro di Monasterace. Negli orari di punta e nel pienone delle fermate del centro attaccavo in cuffia “Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu” il primo album di Elio e le Storie tese, che era uscito da pochi mesi. Ad autobus deserto, verso i capolinea, discutevamo di musica, politica, cinema e cose da fare gratis a Bologna (e ce ne erano di divertenti). E ridevamo molto. Potevamo pranzare gratis alla mensa dell’Atc e ci hanno pure pagato un Milione. Così è finita la mia vita da studentessa viaggiatrice.
Oggi non si può più perché: chi ce l’ha un mese di ferie da passare in autobus? E poi col passaggio alla moneta unica europea, lo stipendio sarebbe certo non più di 500 euro. E chi ce possiede più le cassette e walkman funzionante, poi Bologna non è più quella di una volta. Disse la volpe all’uva.
Sentimento suscitato: sorrido e viaggio oltre.