Non so se interverrò a una delle celebrazioni del 150° anniversario dalla nascita dello Stato Italiano; se qualcuno m’invita, non rifiuterò. Non so dire se l’evento di per sé fu un bene o un male; non mi accodo all’ andazzo che lo esorcizza come il Male Assoluto: mio nonno diceva “cosa fatta, forti che ferru”, un’azione portata a termine, resiste come il ferro. Inoltre, se dal basso delle mie conoscenze, guardo alla cartina geopolitica europea del 1815, mi pare di poter arguire che le regioni italiche peninsulari, e le isole vicine, fossero uscite dal travaglio del Congresso di Vienna così frammentate, legate a doppio filo con gli Stati vincitori (e anche vinti, vedi la Corsica) che prima o poi ne avrebbero rivendicato il possesso, o almeno da quelle basi sarebbero partiti per accampare i loro diritti. E i diritti dei vincitori, com’è ben noto agli storici di professione e persino agli apprendisti, non si discutono, perché prima o poi vengono supportati da una qualche filosofia politica, come fu quella dell’espansione coloniale in Africa che contemplava lo “spazio vitale” per gli europei.A questa logica forse sfuggiva solamente il Regno di Sardegna, ma è vero che in Casteddu de susu già si parlava francese. Da lì, nolenti o volenti gli stessi governanti, si cominciò nel 1821 per finire nel 1870, anche se lo Stato Italiano fu dichiarato tale nel 1861: parte da qui il conto degli anniversari, differenti di quelli di Roma capitale. Non ci fu una legge del Regno di Sardegna, in quel 1861, che non sia stata estesa a tutto il neonato Regno d’Italia. Per gli ex sudditi di Sua Maestà, quelli sardi in particolare, niente cambiò in questo senso, salvo sentirsi diluiti come i ceci di una pentola nel brodo più grande della marmitta Italia. Ora l’Italia non ha più il sapore dei ceci, ci pare di capire, non ostante molti ne siano stati sacrificati per fare questo minestrone. Ecco il nostro problema di sardi, assurti nel frattempo al ruolo di cittadini, almeno nominalmente: si può tornare indietro?È azzardato dare un sì o un non come risposta secca. Chiediamoci allora se è: lecito, legale, possibile, conveniente, condiviso.Che sia lecito dal punto di vista morale, mi pare indubbio, così com’è legale dal punto di vista dei principi fondamentali dei popoli per i quali si prevede la possibilità di autodeterminarsi liberamente come aggregazione politica-statuale. E certamente mi sbilancio a dire che non è impossibile, ma non so quanto sia probabile per quanto io personalmente la auspichi. Credo poi, a fiuto, che sia conveniente; quanto sia condiviso, ciascuno risponda per sé.Gli anziani-giovani che dal profondo della loro esperienza badano al sodo, si chiedono: sarà una cosa a portata di mano? Avrà un percorso pacifico?Si rifletta su cosa pensassero quei quattro “scalmanati” che nel marzo del 1821 chiedevano non un Regno d’Italia unito, ma solamente più diritti ai sudditi di sua Maestà il re sardo.Ecco, qui mi torna in mente lo sbarco di pochi “scalmanati” a Civitavecchia che non hanno chiesto un nuovo Regno sardo, ma solamente più attenzione e più giustizia [1]. Lo Stato ha risposto come tutti sanno: non diversamente da come fece la polizia del regno sardo. E ciò indirizza in parte la previsione di una risposta all’ultima domanda.Ci si potrebbe chiedere: ma sta scherzando? C’è da sorridere al paragone di un Floris col Mazzini?Bene, intanto Felice Floris ha dalla sua una barba scura e ispida, meglio del genovese; in più ha dimostrato di avere gli attributi al posto giusto e un cervello lucido nei momenti di crisi. E poi, Cosa fatta, forti che ferru.Come Tommaso, per credere si può scegliere di vedere e toccare prima con mano; ma quando vedo il fico schiudere le gemme, capisco che l’estate è vicina. In questo senso, il nostro Floris è proprio fico! E non lo dico solamente per ridere.
[1[ Civitavecchia, 28 dicembre 2010: segnatelo nel vecchio calendario. Da qui partirà il conteggio degli anniversari per il futuro RE.SA.R.P.E (Regno Sardo con Re Pastore Eletto).
A proposito della logica dei vincitori, chi ne ha voglia e possibilità, si legga sulla Nuova Sardegna di oggi, pagina 9, un commento di Vittorio Emiliani titolato "Quel simbolo minacciato dalla ignoranza militante". L'ignoranza, va da sé, è quella di quanti non esultano per il tricolore italiano. Quello nato il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia come stendardo della napoleonica Repubblica cisalpina morta "il 26 gennaio 1802 per far nascere un nuovo Stato napoleonico chiamato, come quello di oggi, Repubblica italiana, che cambiò il titolo e il nome in Regno d'Italia il 18 marzo 1805 con sorprendente coincidenza onomastica con quello del 1861. Però, dopo essersi annesso il Veneto nel 1805, le Marche nel 1807 e il Trentino nel 1809, anche questo Stato ebbe termine in seguito al trattato di Parigi del 30 marzo 1814, e, con esso, il suo tricolore" (Francesco Cesare Casula, Italia Il grande inganno, pag 137). Come si vede, ha ragione Francu Pilloni: i diritti dei vincitori prima o poi vengono supportati da una qualche filosofia politica. E poco importa che sia fondata su falsificazioni della storia. [zfp]