Sconcertante inchiesta di uno studio internazionale HBSC sui giovani di 15 anni ed il loro rapporto con la scuola:
La scuola italiana, considerata assieme alla famiglia il contesto educativo e di sviluppo privilegiato, “piace molto” solo ad 1 studente di 11 anni su 3, con una preferenza delle ragazze (34,47%) rispetto ai ragazzi (25,02%). Ma è con l’avanzare dell’età anagrafica che il gradimento nei confronti dei nostri istituti scende sotto i livelli di guardia, se è vero che “piace molto” solo al 6.06% dei ragazzi e all’11,01% delle ragazze di 15 anni, ovvero meno di 1 studente su 10.
E’ questa la percezione, non proprio positiva, della scuola italiana che hanno gli studenti del Belpaese e che emerge da uno studio internazionale HBSC, che si occupa di monitorare i comportamenti collegati alla salute in ragazzi di età scolare e che in Italia è entrato a far parte di un progetto nazionale coordinato dall’istituto Superiore di Sanità. “L’atteggiamento conflittuale dei ragazzi nei confronti della scuola, vista come istituzione, è normale e fisiologico – spiega Alberto Ugazio, presidente della Società italiana di Pediatria – ma assolutamente non vedo correlazioni tra percezione negativa della scuola e abusi di vario tipo o comportanti sociali a rischio, che sono legati a fattori molto più complessi”. (fonte ANSA)
Perché la scuola non piace? Indubbiamente sono tanti i fattori che determinano un allontanamento della società civile:
1- aule sovraffollate;
2- proposte formative non sempre in linea con il contesto di riferimento (penso alla TV e ad internet);
3- insegnanti demotivati
…
Senza entrare nel merito dei problemi della scuola, è giusto tuttavia interrogarsi su quale sia il ruolo che oggi le dà la società.
Tutti l’attaccano, demagogicamente senza pietà, mettendone a nudo -spesso ingiustamente- le carenze: alunni poco preparati; insegnanti demotivati e ‘politicizzati’, didattica obsoleta. Nessuno però rivolge le stesse accuse alla società civile dalla quale la scuola prende le mosse e verso la quale rivolge la sua azione formativa.
I nostri figli non sono abituati a discutere, perché i modelli televisivi (non solo i talkshow, ma anche le recenti sedute del Parlamento) offrono spettacoli eticamente indegni la cui morale si può riassumere nella ‘legge del più forte’: chi urla di più, chi dice più bugie, chi appare di più, pur essendo meno.
La fatica per i nostri figli oggi è sinonimo di stupidità: perché faticare tanto sui libri per costruirmi una coscienza ed una conoscenza se basta un clic su Wikipedia, copiare da un compagno, fingere un mal di testa? “Secchione” è un insulto, studiare facendo il proprio dovere è sinonimo di perdita di tempo.
Al punto che la gara non è più a chi studia di più o meglio, ma a chi riesce a ricadere nel cono d’ombra dell’ignoranza e del bullismo. Siamo in una società fast food, in cui fare bene non è importante: è decisivo fare in fretta!
La scuola invece richiede ‘lentezza’: ognuno ha i suoi tempi, ognuno ha bisogno dei suoi spazi. Invece l’istruzione è costretta in spazi e tempi di apprendimento ridotti, perché la società ci vuole già pronti. Ma pronti a far cosa? La contraddizione di fondo risiede nel paradosso: “studia che altrimenti non trovi un lavoro!” Come si fa a far passare quest’idea in un bambino? Con i nostri tassi di disoccupazione nella migliore delle ipotesi un ‘posto di lavoro fisso’ si concretizza intorno ai 40 anni. Perché allora perdere tempo in scuole astratte e poi in università se posso approdare ad un posto altrettanto precario prima? Come facciamo a convincere i nostri quindicenni che studiare migliora la vita?
Il nostro paese non investe in istruzione: poco meno del 4% del Pil. Siamo legati a logiche contraddittorie: imparare di più e meglio, senza però “oneri per lo Stato” (formula di rito nella maggior parte dei documenti ministeriai).
Prima di sparare sulla scuola, sarebbe opportuno rivedere i modelli culturali che circondano la scuola, modelli suoi quali la società investe più che volentieri (reality, TV, internet …) senza però al contempo legarli a doppio filo all’istruzione. Normalmente si dice: “gli insegnanti si adeguino!” Ma siamo sicuri che quei modelli siano da imitare o non è forse il caso di rileggerli e armonizzarli ai veri bisogni dei giovani d’oggi, sempre più chiusi, sempre più pigri e sempre più intellettualmente demodé?