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A prescindere da un titolo anonimo come “Anonymous”, l'unico demerito del bellissimo film di Roland Emmerich sta nel fatto che milioni di spettatori (e studenti) resteranno convinti che William Shakespeare era solo un prestanome, e il vero autore delle sue opere era Edward de Vere, XVII conte di Oxford. Costui era effettivamente un grand'uomo; ma la teoria, esposta la prima volta da John T. Looney in un libro del 1920, non ha basi concrete (pur essendo più seria di quella che nello stesso ruolo vorrebbe Bacone) ed è costruita soprattutto su un'assenza: la strana scarsità di dati biografici sul Bardo di Stratford-upon-Avon.
“Anonymous” costruisce su questa e su varie altre presupposizioni (il conte di Essex come figlio naturale di Elisabetta I! - e molto altro) una complessa trama di storia alternativa: non controfattuale, però, in quanto sfocia nella storia come la conosciamo, solo che ne inventa dei folli retroscena. C'è nel film un'indubbia accuratezza storica di partenza: anche personaggi fuggevoli come l'amante incinta di de Vere sono autentici, rivoltati e intessuti in un contesto fictional con notevole abilità. Per esempio, un fatto reale, l'omicidio di un servitore da parte di de Vere a 17 anni, viene modificato facendogli trafiggere l'uomo attraverso un arazzo, e diventa così un'anticipazione dell'uccisione di Polonio che de Vere metterà nel suo “Amleto”.
Sulla scorta dell'eccellente sceneggiatura di John Orloff, Roland Emnerich ha realizzato il film come un saggio di graduation, per mostrarci che non è solo un regista di film avventurosi, alcuni ben riusciti (“Stargate”, “Indipendence Day”, “The Day After Tomorrow”), altri solo divertenti (“2012”), altri brutti (“10.000 AC”) o esecrabili (“Godzilla”). Fatica sprecata, la sua, si potrebbe aggiungere: visto che la pigrizia intellettuale della maggior parte dei critici ormai lo ha categorizzato, e che anche un ottimo film come questo (assai superiore per esempio a “Shakespeare in love”) non li smuove di un millimetro. Del resto, di fatiche sprecate, pene d'amor perdute, disastri esistenziali, cospirazioni fallite, molto sudore per nulla, lo stesso film è pieno; si può ben dire che la materia para-shakespeariana ha influenzato la sceneggiatura. Non per nulla, rispetto alla tragica vicenda dei conti di Essex e Southampton sentiamo nel film più di un riferimento al teatro (dice a de Vere la maligna moglie: “Tuo figlio sarà ucciso, Edward, da sua madre. Mettilo in una delle tue commedie”).
Il film, pur indirizzato al grande pubblico, non nasconde dunque una certa ambizione autoriale. Interessante il gioco metanarrativo in apertura: in un teatro della New York contemporanea un attore (Derek Jacobi) racconta al pubblico la “vera” storia di Shakespeare; mentre parla vediamo prepararsi l'attore che interpreta Ben Jonson e le comparse che faranno i soldati elisabettiani con torce. Costoro stanno per entrare in scena - ma non nello spettacolo che vediamo, bensì nella Londra di qualche secolo prima. Si fa notare anche una precisa citazione dell'inizio dell'“Enrico V” di Laurence Olivier (1944), nel movimento di macchina aerea che ci porta dal Tamigi al Globe.
Il punto da sottolineare non è che Emmerich sa uscire abilmente dalle scene in interni con un paio di ariose scene di massa e di CGI (la sommossa dei popolani in favore di Essex, il solenne stacco da una stanza del Palazzo ai funerali di Elisabetta a Londra sotto la neve). Questo era da aspettarsi. La cosa interessante è che Emmerich si dimostra assai convincente nella situazione contraria: il gioco di recitazione in ambienti chiusi. Lo aiutano magnifiche interpretazioni: in particolare Rhys Ifans (de Vere) e Rafe Spall (Will Shakespeare, attore e prestanome), nonché una monumentale Vanessa Redgrave, la regina da vecchia in un ritratto di folgorante realtà umana, che potrebbe ambire al titolo di miglior Elisabetta della storia del cinema.
Un'ottima messa in scena fa emergere con autentica vivezza la Londra elisabettiana, il gioco dei potenti a corte, l'umile milieu teatrale (Jonson, Marlowe, Dekker, Nashe...). I cattivi dei due mondi sono rispettivamente i due Cecil, padre e figlio, e l'invidioso Christopher Marlowe (povero Kit Marlowe! Il fatto che fosse effettivamente un tipaccio ne fa il son of bitch naturale per qualsiasi rievocazione immaginaria, come l'eccellente romanzo ucronico di Harry Turtledove “Ruled Britannia”, da noi “Per il trono d'Inghilterra”). Da questo punto di vista “Anonymous” è molto informativo, e si potrebbe utilizzare a scopo didattico (paradossalmente, dato la sua trama di pura invenzione: cosa che gli insegnanti faranno bene a spiegare). Esaltazione del valore della parola e del teatro, il film mostra assai bene come la forma del teatro elisabettiano consentisse un rapporto stretto col pubblico: qui, in una bellissima scena, l'attore che interpreta Enrico V recita il grande discorso di Agincourt toccando le mani protese degli spettatori commossi.
Ma c'è di più. Quello che davvero scatena l'entusiasmo in questo film, quello che gli dà la maggior parte del suo valore, è il modo storicamente corretto in cui mostra la messa in scena dei drammi shakespeariani nell'epoca in cui furono scritti. Mentre oggi teniamo ancora nella memoria (se non sui palcoscenici) la recitazione solenne e lirica di Shakespeare stabilitasi nell'Ottocento, il film ne sottolinea invece la componente di buffoneria. Mica nelle commedie! Perfino nel prologo dell'“Enrico V” (parere personale: forse la pagina forse più alta che il Bardo abbia mai scritto) l'attore che interpreta il Prologo buffoneggia alla parola “cavallo” mimando uno stallone per la delizia del pubblico. Un teatro di carne e sangue, un teatro in cui il dramma più straziante può rompersi in una risata, il teatro adatto per arene in cui si esibiva l'orso ammaestrato. Era inaspettato che, di tutti i registi, dovesse mostrarcelo sullo schermo Roland Emmerich.
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