Antartide (minimum fax, 2011) è l'ultimo romanzo di Laura Pugno: opera “fredda”, potremmo immaginare, da buoni qualunquisti, già a partire dal titolo e dalla copertina; su quest'ultima, peraltro, riteniamo più opportuno non pronunciarci in questa sede. Preghiamo solo chi legge di porre attenzione al pinguino in stazione eretta sopra un cubetto di zucchero galleggiante, a mo' di iceberg, all'interno di una tazza di cioccolata (che sia caffè?).
Opera “fredda” perché racconta la storia di Matteo, ricercatore presso una base in Antartide, uomo alle prese con due snodi fondamentali della sua esistenza: la separazione dalla moglie e la morte del padre, Niccolò, colpito da un malore mentre, in treno, si recava in un posto non precisato (il buon senso nei confronti del lettore ci induce a non rivelare la natura di questo “luogo”, ché chi scrive ha per le mani, da tempo, una crociata contro i recensori che raccontano tutta la trama). Il ritorno a Roma da parte di Matteo segna l'avvio di una serie di coincidenze strane, che lo porteranno ad indagare su suo padre, ma non solo, e più in generale lo condurranno a una riflessione (in verità piuttosto “telefonata”, c'è da dirlo) sul senso della vita e ancora di più su quello della morte.
Opera “fredda”, Antartide, perché lo stile è nervoso, sincopato, le frasi sono brevi, quando non brevissime, i dialoghi smozzicati, quasi strappati a forza dalle gole dei personaggi, l'azione è serrata ma concede aperture liriche (e non è un caso, dato che la Pugno è anche poetessa) che squarciano la realtà ostile e, anche fosse per un solo attimo, danno l'impressione di un senso “altro”.
Opera “fredda” perché i personaggi di cui si diceva, sembrano vivere tutti dentro un globo trasparente e fragilissimo: oltre a Matteo, motore immobile della narrazione, Sonia, la donna che ha amato, e Micól, la loro bambina, e poi molti personaggi collaterali che promettono, da un punto di vista narrativo, molto di più di quanto alla fine Laura Pugno fa loro mantenere. Probabilmente è proprio questo il difetto maggiore di Antartide: viene creata un'atmosfera rarefatta, gli “attanti” principali vengono presentati opportunamente e con toni cupi, foschi, d'immensa solitudine esistenziale, ma alla fine della fiera, giunti all'ultima pagina, l'impressione è che l'“indagine” (in senso molto ampio) prospettata per tutto il libro, in realtà non si sia mai svolta e abbia anzi troppo spesso lasciato spazio a quello che definirei un “abbandono da melò” il quale, se non infastidisce, almeno fa deviare pericolosamente dalla disperata Weltanschauung che sembra essere avallata nell'ambito di tutta l'opera.
A proposito di Antartide, si sono letti, in altre sedi, giudizi espressi in aggettivi come: «commovente», «purissimo», «sottilmente morboso», «sensuale». Lungi da chi scrive volersi addentrare in certe questioni relative alla pratica della recensione e, non in subordine, alla necessaria onestà del recensore stesso, che attengono al regno delle congetture, delle “fantasticherie”, potremmo dire, non è possibile non sorprendersi di fronte a certe sospette uniformità, a certi giudizi che (ma perdonatela, questa malalingua di un recensore!) sembrano venuti fuori da una catena di montaggio: e come non sorprendersi a scorrere la rassegna stampa e accarezzare di nuovo concetti studiati anni prima all'Università, concetti come “intertestualità”. Ma che ci volete fare: in certi casi, chi prova a scostarsi dal “rumore” e, viva Dio, a dire, se un libro non gli è piaciuto, che non gli è piaciuto, ha un po' troppo coraggio. Si tratta di dinamiche insondabili, «che voi umani non potete neanche immaginare».
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