Domani esce in tutte le librerie Resta anche domani (Mondadori), il libro di Gayle Forman (If I stay, in lingua originale) da cui è stato tratto l’attesissimo film i uscita nelle sale cinematografiche italiane il 18 settembre 2014.
Non ti aspetteresti di sentire anche dopo. Eppure la musica continua a uscire dall’autoradio, attraverso le lamiere fumanti. E Mia continua a sentirla, mentre vede se stessa sul ciglio della strada e i genitori poco più in là, uccisi dall’impatto con il camion. Mia è in coma, ma la sua mente vede, soffre, ragiona e, soprattutto, ricorda. La passione per il violoncello e il sogno di diventare una grande musicista, l’ironia implacabile di Kim e la scazzottata che ha inaugurato la loro amicizia, l’amore di un ragazzo che sta per diventare una rockstar e la prima volta che, tra le sue mani, si è sentita vibrare come un delicato strumento. Ma ricorda anche quello che non troverà al suo risveglio: la tenerezza arruffata di suo padre, la grinta di sua madre, la vivacità del piccolo Teddy, l’emozione di vivere ogni giorno in una famiglia di ex batteristi punk e indomabili femministe. A tanta vita non si può rinunciare. Ma cosa rimane di lei, adesso, per cui valga la pena restare anche domani?
Un libro toccante e carico di emozioni che non deluderà i lettori in cerca di una lettura particolare e non banale.
Grazie alla collaborazione con Mondadori pubblichiamo un estratto in anteprima del romanzo.
ore 7: 09
Tutti pensano che sia stata colpa della neve. In un certo senso, è così.
Stamattina, quando mi sono svegliata, il giardino era coperto da una sottile coltre bianca. Appena un paio di centimetri, ma in questa zona dell’Oregon una leggera spruzzata è sufficiente a paralizzare ogni attività, mentre l’unico spazzaneve della contea si dà da fare a ripulire le strade. Dal cielo continua a cade- re neve acquosa – e cade, e cade – di quella che non attacca.
Comunque, è abbastanza per saltare la scuola. Teddy, mio fratello piccolo, lancia un grido di guerra quando la radio della mamma, sintonizzata sulle onde medie, annuncia la chiusura delle scuole.
—Viva la neve! — strilla. — Papà, andiamo fuori a fare un pupazzo!
Papà sorride e picchietta sulla pipa. Ha cominciato a fumarla da poco, fa parte della fissa per gli anni Cinquanta che gli è presa ultimamente. Si mette per- sino il cravattino. Non ho ancora capito se è solo una questione di moda o un modo ironico di proclamare che una volta era un punk e adesso un insegnante di lettere di scuola media. O forse, semplicemente, es- sere diventato insegnante lo ha reso davvero un po’ antiquato. Comunque sia, mi piace l’odore del tabacco da pipa. È dolce e affumicato, mi ricorda l’inverno e le stufe a legna.
— Ci possiamo provare — dice papà a Teddy — ma questo nevischio attacca a malapena. Credo che dovrai accontentarti di un’ameba di neve.
Papà è felice. Qualche centimetro di neve vuol di- re la chiusura di tutte le scuole della contea, compre- sa la mia e quella in cui insegna lui, il che significa per entrambi un giorno di vacanza imprevisto. Mia madre, che lavora in un’agenzia di viaggi in centro, spegne la radio e si versa un’altra tazza di caffè. Be’, se voi oggi saltate la scuola, io non ci penso nemmeno ad andare al lavoro. È terribilmente ingiusto!
— Alza il telefono e chiama in ufficio, e dopo aver riagganciato, ci guarda. — Preparo la colazione?
Io e papà scoppiamo in una risata complice: mamma è capace solo di preparare cereali e pane tostato, è papà il cuoco in famiglia.
Ma lei finge di non aver sentito e tira fuori una sca- tola di farina dall’armadietto. — Su, non sarà poi co- sì difficile. Chi vuole i pancake?
— Io! Io! — strilla Teddy. — Con le gocce di cioccolato?
— Non vedo perché no — risponde mamma.
— Evviva! — esulta Teddy agitando in aria le braccia.
— Quanta energia a quest’ora del mattino! — lo punzecchio. — Forse non dovresti dargli tutto quel caffè, mamma.
— Sono già passata al decaffeinato con lui — sbuffa mia madre. — È agitato di natura.
— Basta che non passi al decaffeinato con me —
puntualizzo.
— Sarebbe maltrattamento di minore — osserva papà.
Mamma mi allunga una tazza fumante e il giornale. — C’è una bella foto del tuo ragazzo.
— Sul serio? Una foto?
— Già. Praticamente è tutto quello che siamo riusciti a vedere di lui da quest’estate — commenta, lanciandomi un’occhiata di sottecchi con un sopracciglio alzato, nella sua versione di sguardo indagatore.
— Lo so — dico, sospirando mio malgrado. Il gruppo di Adam, gli Shooting Star, sta vivendo il suo mo- mento di gloria. Il che è fantastico… quasi sempre.
— Ah, la fama… roba sprecata, per i giovani! — commenta papà. Ma ha il sorriso sulle labbra e so che è contento per Adam, anzi, credo che ne vada addirittura fiero.
Sfoglio il giornale fino alle pagine degli spettacoli. C’è un piccolo pezzo dedicato agli Shooting Star, con una fotografia ancora più piccola di loro quattro, accanto a un mega articolo sui Bikini e a una foto gigante della cantante: la diva punk rock Brooke Vega. Il pezzo dice sinteticamente che il gruppo locale Shooting Star farà da supporter ai Bikini nella tappa di Portland della tournée nazionale. Neanche il mini- mo accenno alla notizia, secondo me molto più sensazionale, del concerto di ieri sera degli Shooting in un locale di Seattle dove, stando al messaggio che mi ha inviato Adam a mezzanotte, hanno fatto il sold out.
— Hai intenzione di andare al concerto stasera?
— mi chiede papà.
— Pensavo di sì. A meno che non dichiarino lo sta- to di emergenza in tutto il Paese per via della neve.
— In effetti si avvicina una bufera — dice papà, indicando un fiocco di neve solitario che fluttua a mezz’aria.
— E poi, in teoria, dovrei esercitarmi con il pianista del college che mi ha scovato la professoressa Christie.
— La professoressa Christie, un’insegnante di musica in pensione da cui prendo lezione da qual- che anno, è sempre alla ricerca di vittime con cui farmi suonare. «Devi mantenerti in esercizio per mostrare a quegli snob della Juilliard come si suona» dice.
Non so ancora se sono entrata alla Juilliard, la prestigiosa scuola di musica di New York, ma l’audizione è andata molto bene. La suite di Bach e il pezzo di Šostakovic mi sono venuti a meraviglia, come se le mie dita fossero un prolungamento delle corde e dell’archetto. Alla fine dell’esecuzione, boccheggiante e con le gambe che tremavano per averle premute insieme con tanta forza, ho sentito uno dei giudici fare un piccolo applauso, cosa che non credo capiti molto spesso. Fuori dalla sala, lo stesso giudice mi ha detto che era da un pezzo che alla scuola non si vedeva “una ragazzotta dell’Oregon”, e la professo- ressa Christie ha interpretato il commento come una garanzia di ammissione. Io non ero altrettanto sicura che fosse vero. E non ero nemmeno sicura al cento per cento di desiderare che lo fosse. Come l’ascesa fulminea degli Shooting Star, la mia ammissione al- la Juilliard – se mai fosse avvenuta – avrebbe creato alcune complicazioni o, più precisamente, ne avrebbe aggiunte altre a quelle che già si erano create ne- gli ultimi mesi.
— Ho bisogno di altro caffè. Qualcuno ne vuole? — chiede mamma, con la caffettiera sospesa a mezz’aria.
Inspiro l’aroma intenso della marca di caffè preferita in famiglia. Basta il profumo a tirarmi su. — Pensavo di tornarmene a letto — annuncio. — Ho lasciato il violoncello a scuola, quindi non posso nemmeno esercitarmi.
— Non puoi esercitarti? Per ben ventiquattr ’ore? Cuore mio, reggiti forte! — sospira mia madre. Ben- ché negli anni abbia acquisito un certo orecchio per la musica classica – «È come imparare ad apprezza- re un formaggio puzzolente» – non è sempre entusiasta di sentirmi suonare per ore.
All’improvviso, dal piano di sopra arriva un frastuono infernale. È Teddy che picchia sulla batteria. Era di papà, quando suonava in un complesso famosissimo nella nostra città ma sconosciuto in tutte le al- tre, all’epoca in cui lavorava in un negozio di dischi.
Il sorrisetto di mio padre a quel rumore insopportabile mi provoca una fitta familiare. So che è stupi- do, ma ho sempre temuto di averlo deluso perché non sono diventata una musicista rock. Ne avevo tutta l’intenzione. Ma poi, in terza elementare, duran- te l’ora di musica, mi sono avvicinata al violoncello. Aveva un aspetto quasi umano. Dava l’impressione che a suonarlo ti avrebbe rivelato i suoi segreti. Così cominciai a studiare violoncello. Sono passati quasi dieci anni e non ho mai smesso.
— Tanti saluti all’idea di tornarsene a letto — urla mia madre per sovrastare il frastuono.
— Che importa ormai, tanto la neve si sta già sciogliendo — dice papà, prima di tirare una boccata dal- la pipa. Vado a sbirciare dalla porta sul retro: fra le nuvole è apparso uno sprazzo di sole e sento il sibilo del ghiaccio che cede. Richiudo la porta e torno a sedermi a tavola.
— Secondo me hanno esagerato — dico.
— Forse. Ma non possono più annullare la chiusura delle scuole. Ormai i buoi sono scappati dalla stalla e io mi sono presa un giorno libero! — esclama mamma.
— Giusto. Però possiamo approfittare di questa fortuna inattesa e andare da qualche parte — propone papà.
— Potremmo passare da Henry e Willow.
— Henry e Willow sono due vecchi amici dei miei, che come loro hanno messo su famiglia e deciso che era giunta l’ora di comportarsi da adulti. Abitano in una grande casa colonica, Henry fa il webqualcosa e ha trasformato la rimessa in ufficio, mentre Willow lavora in un ospedale lì vicino. Hanno una bambina di pochi mesi e in realtà è questa la vera ragione per cui mamma e papà vogliono andare a trovarli. Teddy ha appena compiuto otto anni e io ne ho diciassette, quindi non emaniamo più da un pezzo quell’odore di latte acido che fa rincretinire gli adulti.
— Al ritorno possiamo fare un salto alla Casa del Libro — dice mamma per allettarmi. La Casa del Libro è un gigantesco capannone polveroso dove vendono libri usati, e sul retro c’è uno stock di dischi di musica classica a venticinque centesimi l’uno, a cui nessun altro oltre me sembra interessato. Ne ho una pila intera nascosta sotto il letto – sapete com’è, una collezione di dischi di musica classica non è il gene- re di cose che uno sbandiera ai quattro venti.
L’ho mostrata a Adam solo dopo cinque mesi che stavamo insieme. Mi aspettavo che ridesse di me, dato che è un tipo da jeans borchiati, scarpe da ginnastica nere, magliette strappate in puro stile punk e tatuaggi. Non certo il genere di ragazzo che si mette con una come me. Due anni fa, quando mi sono accorta che mi fissava nell’aula di musica, ero convinta che lo facesse per sfottermi e ho continuato a girargli alla larga per un pezzo. Comunque, non solo non è scoppiato a ridere, ma mi ha confessato di avere nascosta sotto il letto un’intera collezione di vecchi dischi punk.
— Al ritorno potremmo fermarci a mangiare un boccone dai nonni — propone papà, con la mano già sul telefono. — Rientreremo in tempo perché tu pos- sa andare a Portland.
— Ci sto. — Non è tanto l’attrattiva della Casa del Libro o il fatto che Adam sia in tournée e che la mia migliore amica, Kim, sia occupata con le foto per l’annuario scolastico. E non dipende nemmeno dal fatto che ho lasciato il violoncello a scuola o che l’alternati- va è starsene a casa a guardare la tivù o a dormire. La verità è che preferisco davvero uscire con la mia fami- glia. È un’altra di quelle cose che non vai a sbandiera- re in giro, ma Adam capisce anche questo.
— Vestiti, Teddy — urla papà. — Si parte per un’av- ventura!
Teddy conclude il suo assolo alla batteria con un fragore di piatti e un attimo dopo eccolo saltellare in cucina vestito di tutto punto, come se si fosse infila- to gli abiti in fretta e furia mentre si precipitava giù per le scale di legno della nostra vecchia casa vittoriana. — School’s out for summer… La scuola è chiusa per l’estate… — canticchia.
— Alice Cooper? — si stupisce papà. — Per favo- re, un minimo di decenza. Almeno canta qualcosa dei Ramones.
— School’s out forever… La scuola è chiusa per sempre… — continua Teddy, senza badare alle proteste di papà.
— Il solito ottimista — commento.
Mamma ride e posa un piatto di pancake legger- mente bruciacchiati sul tavolo della cucina. — Avanti, mangiate.
ore 8 :17
Ci pigiamo in macchina, una Buick arrugginita che
era già un catorcio quando il nonno ce l’ha regalata, dopo la nascita di Teddy. Mamma e papà mi chiedo- no se voglio guidare, ma rispondo di no, lasciando a mio padre il posto al volante. Ora gli piace guida- re. Si è rifiutato di prendere la patente per anni, osti- nandosi ad andare in bici ovunque. All’epoca in cui suonava, la sua astensione dalla guida costringeva il resto del gruppo a darsi il turno al volante durante le tournée, mentre lui si faceva sempre scarrozzare. I membri della band sbuffavano e alzavano gli occhi al cielo, ma mamma non si limitava a questo. Aveva tentato con le buone e con le cattive di convincere papà a prendere la patente, ma niente da fare. Lui continuava a preferire la forza motrice dei pedali. «Allora sarà meglio che ti inventi una bicicletta in grado di trasportare una famiglia di tre persone e di riparar- ci quando piove» gli disse mamma a un certo pun- to. Papà si mise a ridere e le promise che ci avrebbe fatto un pensiero. Quando fu incinta di Teddy, però, mamma puntò i piedi. «Adesso basta» disse. E papà deve aver ca- pito che era cambiato qualcosa. Smise di discutere e prese la benedetta patente. Non solo. Ricominciò a studiare e ottenne l’abilitazione all’insegnamento. Con un figlio ci si poteva ancora permettere di fare gli adolescenti, ma con l’arrivo del secondo era ora di crescere. Era ora di passare al cravattino.
Stamattina ne sfoggia uno abbinato a una giacca sportiva in lana bouclé e a un paio di scarpe trafora- te anni Cinquanta. — Vedo che ti sei messo la tenu- ta da neve — noto.
— Non c’è grandine, pioggia, né tantomeno qual- che centimetro di neve che mi possano costringere a vestirmi come un boscaiolo — risponde papà, mentre raschia la neve dal parabrezza con uno dei dinosauri di plastica di Teddy disseminati in giardino.
— Ehi, io ho dei parenti boscaioli! — protesta mamma. — Non offendere gli onesti spaccalegna.
— Non me lo sognerei mai — risponde papà.
— Volevo solo sottolineare una certa differenza di stile.
Papà deve girare la chiave un paio di volte prima che la macchina tossisca e si metta in moto. Come al solito, inizia una disputa per la scelta della musi- ca. Mamma vuole ascoltare il notiziario. Papà vuole Frank Sinatra. Teddy vuole la sigla di SpongeBob, il suo cartone animato preferito. Io sarei per la stazione di musica classica, ma dato che sono l’unica appassionata in famiglia, mi dichiaro disposta a scendere a un compromesso sugli Shooting Star.
Papà fa da mediatore. — Oggi non c’è scuola, quindi propongo di ascoltare il notiziario per tenerci informati su quello che accade nel mondo. Poi ci sintonizzeremo sulla stazione di musica classica. Non temere, Teddy, non intendiamo torturarti. Tu puoi metterti le cuffie — aggiunge, staccando il lettore CD portati- le collegato all’autoradio. — Ma ti proibisco formalmente di ascoltare Alice Cooper in questa macchina.
— Papà fruga tra i CD nel vano portaoggetti. — Che ne dici di Jonathan Richman?
— Voglio SpongeBob! È già là dentro! — strilla Teddy saltellando sul sedile con il dito puntato verso il lettore. Evidentemente i pancake al cioccolato innaffiati di sciroppo d’acero non sono stati una buona alternativa al caffè.
— Figlio mio, tu mi spezzi il cuore! — scherza papà. Io e Teddy siamo cresciuti al suono delle canzonette di Jonathan Richman, considerato dai miei genitori il santo patrono della musica.
Una volta risolta la questione musicale, si parte. La strada è chiazzata di neve, ma per lo più è solo bagnata. In Oregon le strade bagnate sono la nor- ma. Mamma dice sempre che il vero pericolo sono le strade asciutte. «Le persone si esaltano, abbandona- no ogni prudenza e guidano come pazze. E le multe per eccesso di velocità fioccano.»
Appoggio la testa al finestrino e osservo il paesaggio scorrere su uno sfondo di abeti verde scuro, spruzzati di neve e avvolti in bianchi filamenti di nebbia, sotto grigie nubi temporalesche. In macchina fa talmente caldo che i vetri continuano ad appannarsi e io mi diverto a tracciare piccoli disegni sulla condensa.
Al termine del notiziario, ci sintonizziamo sul canale di musica classica. Riconosco le prime battute della sonata per violoncello numero 3 di Beethoven, il pezzo che avrei dovuto provare quel pomeriggio. Una curiosa coincidenza cosmica. Mi concentro sul- le note e immagino di suonare, contenta di quell’opportunità di esercitarmi, felice di godermi il calduccio con la mia famiglia. Chiudo gli occhi.
* * *
Non ti aspetteresti che la radio continui a funziona- re, dopo. Eppure è così.
La macchina viene completamente sventrata. L’impatto con un enorme furgone lanciato a cento chilo- metri all’ora, che investe in pieno il lato passeggeri, ha l’effetto di una bomba atomica. Le portiere vengono divelte e il sedile del passeggero è sbalzato fuori dal finestrino del guidatore. La macchina cappotta e rotola lungo la strada, il motore si squarcia come una ragnatela. Pneumatici e cerchioni finiscono catapultati in mezzo al bosco. Alcuni pezzi di serbato- io si incendiano e minuscole fiammelle lambiscono il ciglio della strada umida.
Il fragore è stato tremendo. Una sinfonia di cigolii, un coro di schianti, un’aria di esplosioni e, per finire, il sordo frusciare del metallo tra il fogliame. Poi il silenzio, tranne un suono: le note della sonata numero 3 per violoncello di Beethoven. Incredibilmente l’autoradio è rimasta attaccata alla batteria, così Beethoven continua a diffondersi nella quiete irreale di questa mattina di febbraio.
La prima impressione è che non sia successo niente di grave. Tanto per cominciare, sento ancora Beethoven. E poi sono in piedi, nel mezzo di un fosso sul ciglio della strada. Abbasso lo sguardo e riconosco la gonna jeans, il cardigan di lana e gli stivali neri che indossavo stamattina quando siamo usciti di casa. Mi arrampico sul terrapieno per dare un’occhiata alla macchina. O a quel che ne resta. Uno scheletro di metallo, senza sedili né passeggeri. Il resto della mia famiglia dev’essere stato sbalzato fuori dall’abitacolo come me. Mi pulisco le mani sulla gonna e ri- salgo lungo la strada per cercarli.
Il primo che vedo è papà. Anche a parecchi metri di distanza, riesco a individuare la pipa che spunta dalla tasca della giacca. — Papà — chiamo, ma men- tre mi avvicino scivolo sull’asfalto, cosparso di una sostanza grigia che ricorda un cavolfiore spappolato. Capisco subito di che cosa si tratta, ma non lo collego immediatamente a mio padre. Mi vengono in mente i servizi televisivi sugli uragani o sugli incendi, capaci di devastare una casa senza nemmeno sfiorare quella vicina. Brandelli del cervello di mio padre so- no sparsi sull’asfalto, ma la sua pipa è ancora intatta nel taschino sinistro della giacca.
Poi vedo mamma. Non c’è quasi sangue su di lei, ma le labbra sono livide e quello che dovrebbe essere il bianco degli occhi è completamente rosso, come in un film dell’orrore dagli effetti speciali scadenti. È assolutamente irreale. Al vederla con quello spaventoso aspetto da zombi, mi assale un’ondata di nausea.
Devo trovare Teddy! Dov’è finito? Mi volto di scatto, in preda all’angoscia, come quella volta che l’ho perso di vista per una decina di minuti al supermercato. Ero convinta che l’avessero rapito, invece si era solo allontanato per andare a curiosare tra i dolciumi. Quando l’ho trovato, non sapevo se abbracciar- lo o fargli una scenata.
Torno di corsa verso il fosso e vedo una mano sporgere. — Teddy, sono qui! — grido. — Dammi la ma- no. Ora ti tiro fuori. — Mentre mi avvicino, però, noto il luccichio metallico di un braccialetto d’argento con due ciondoli, uno a forma di violoncello e l’altro di chitarra. Me l’ha regalato Adam per il mio diciassettesimo compleanno. È il mio braccialetto. Lo portavo stamattina. Abbasso lo sguardo. Ce l’ho ancora al polso.
Mi avvicino di più e mi rendo conto che non è Teddy quello steso a terra. Sono io. Il sangue ha impregnato la camicia, la gonna e il maglione, e goccio- la sulla neve immacolata come vernice. Una gamba è di sghembo, con la pelle e i muscoli dilaniati, tanto che in alcuni punti si intravede il bianco dell’osso. Ho gli occhi chiusi e i miei capelli castani sono impastati di sangue rappreso color ruggine.
Volto la testa dall’altra parte. C’è qualcosa che non va. Non può essere. Siamo una famiglia partita per una gita, ecco la verità. Tutto questo non è reale. Devo essermi addormentata in macchina. No! Per favore, basta. Ti prego, svegliati! grido all’aria gelida. Fa freddo, dalla mia bocca dovrebbe uscire una nuvoletta di fumo. Invece nulla. Mi guardo il polso, quello apparentemente illeso, risparmiato da quella carneficina, e mi do un pizzicotto con tutte le mie forze.
Non sento niente di niente.
Mi è capitato di avere incubi in cui sognavo di cadere, di suonare il violoncello in pubblico senza conoscere la musica, di rompere con Adam. Ma sono sempre riuscita a costringermi ad aprire gli occhi, a sollevare la testa dal cuscino e fermare il film dell’orrore che scorreva dietro le palpebre. Ci riprovo. Svegliati! urlo. Svegliati svegliati svegliati! Ma non posso. Non ci riesco.
Poi sento qualcosa. La musica. Posso ancora senti- re la musica. Mi concentro su quella. Muovo le dita e seguo le note della sonata per violoncello numero 3 di Beethoven, come faccio spesso quando ascolto i brani su cui mi esercito. Adam lo chiama il “violoncello invisibile”. Dice sempre che un giorno potremmo suonare a due, lui la sua chitarra invisibile e io il mio violoncello invisibile. «Alla fine del concerto, possiamo anche sfasciare gli strumenti» scherza. «Lo so che non vedi l’ora di farlo.»
Suono, mi abbandono completamente alla melodia, finché la macchina non dà l’ultimo segno di vita e la musica cessa.
Poco dopo arrivano le sirene.
(testo gentilmente concesso dalla Mondadori)