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Anteprima Io Donna - Intervista a Michela Murgia
Creato il 15 giugno 2012 da Angeloricci @angeloricciAccendo racconti come faceva mia nonna
“Scrivo per scaldare gli altri” dice Michela Murgia. Che nel nuovo romanzo parla di feste, processioni, piccole rivalità. E di infanzie avventurose. Che non ci sono più di Anna Maria Speroni, foto di Nicola De Luigi Sono cresciuta nella convinzione che la Sardegna fosse il centro del mondo, e Cabras il suo piercing. Non ho mai avuto voglia di andare via. Ma una comunità coesa è luogo di contraddizioni: la sbarra che ti sorregge è la stessa che ti rinchiude». Tre anni fa, con Accabadora, Michela Murgia aveva ammaliato i lettori con una storia ambientata in una comunità «interagente e solidale anche nei segreti». L’incontro (Einaudi), in questi giorni in libreria, di una realtà simile mette in luce le contraddizioni. Lo spunto è autobiografico: «L’incontro è una festa diffusa in tutta la Sardegna: il giorno di Pasqua le statue di Gesù e della madonna vengono portate in due processioni distinte che si riuniscono in un luogo stabilito. Ma una volta, a Cabras, un’inimicizia tra parrocchie complicò l’evento. Io racconto la storia dal punto di vista di un bambino. Il quale, in un’estate che segnerà la sua crescita, capisce che non esiste solo il “noi”: a volte ci vuole anche l’“io”. Quando tutti pensano la stessa cosa, vuol dire che qualcuno non sta pensando. Il romanzo si svolge negli anni ’80, ma il tema della comunità e dei suoi confini è attuale. A che cosa si riferisce? Per esempio all’esaltazione di comunità come gruppo autoreferenziale propria del leghismo; a una retorica dell’identità legata all’idea di un nucleo impermeabile che non può fare i conti con l’alterità, pena la sua stessa dissoluzione. Lei però sembra legata alle sue radici. Sostiene anche il movimento indipendentista sardo. Sono affezionata a certe dinamiche collettive da cui provengo: il “noi” iniziale della Comunità mi ha segnato. Ma ho imparato a riconoscerne le criticità: non esiste concetto di privacy; ci sono regole precise di normalità; la diversità trova posto con fatica e non sarà mai legittimata se non riesci ad agglomerare attorno a te un microcosmo. E le radici no, quelle ce le hanno gli alberi, l’uomo ha i piedi e deve camminare. I protagonisti dell’Incontro sono tutti maschi. Nel mio gruppo di amici ero l’unica femmina, ma nessuno degli altri mi vedeva come tale: mi è venuto spontaneo trasporre i ricordi al maschile. Ha avuto un’infanzia avventurosa? Godevamo di margini di libertà favolosi, inimmaginabili oggi. Ormai le avventure si vivono solo alla Playstation. I genitori sono troppo protettivi? L’infanzia dovrebbe contenere avventure con un margine di rischio, che non vuole dire rischiare la vita. Con mia madre avevamo un patto, io e mio fratello: potete fare quel che volete ma ogni mezz’ora dovete farvi vedere. In mezz’ora non combinavamo più di tanto; però non ci tenevano in casa per stare tranquilli, un rischio se lo assumevano anche mamma e papà. E non sono venuta su male: ma senza paura di niente, casomai. In L’incontro, come in Accabadora, c’è il tema dei legami scelti più forti di quelli di sangue. Nel primo tra amici, nel secondo tra genitori e “figli d’anima”, l’usanza secondo la quale i genitori affidano un bambino a un’altra famiglia. Anche lei lo ha voluto, a 18anni. Perché? Che cosa le mancava? I molti modi in cui potevo essere figlia non stavano tutti nella casa in cui sono nata: di mamma non ce n’è una sola. Non è questione di mancare, ma di che cosa vuoi essere. Il contesto è determinante: non è vero che puoi diventare qualunque cosa, puoi diventare ciò che il contesto ti permette. I miei genitori avevano un’attività commerciale e a loro sembrava impossibile che io potessi fare altro. L’idea che potessi studiare, soprattutto teologia come poi ho scelto, era molto distante dalla loro sensibilità. Quindi la nuova famiglia l’ha aiutata a proseguire gli studi. Danilo Dolci (poeta, ndr) diceva:“Ciascuno cresce solo se sognato”. Bisogna che qualcuno ti sogni per come sarai, non solo come sei. La mia famiglia mi aveva sognato com’ero, per come sarei stata ce ne voleva un’altra. Ha cambiato mille lavori. Il preferito? Insegnare. Ho adorato i ragazzi, miniere di energie che ti costringono a guardare al futuro con occhi protettivi, da seminatore. E poi ha cominciato a scrivere. Per caso, ha raccontato. Per caso e per culo: non ho mai mandato niente all’editore. E com’è che l’editore si accorse di lei? Fu Massimo Coppola, direttore editoriale di Isbn (la casa editrice con cui poi pubblicai Il mondo deve sapere) e conduttore di Avere vent’anni su Mtv. Stava preparando una puntata sull’azienda in cui lavoravo come telefonista, trovò il mio blog. Ed è iniziato tutto. Ho sempre avuto fiducia nelle mie capacità, ma della cosa che forse so fare meglio non mi ero accorta. Lei non è uno degli autori che scrivono per un bisogno irrefrenabile? No. Le storie si raccontano se qualcuno te lo chiede. Quando, da bambini, ci sedevamo davanti alla porta di casa c’era sempre uno che, dopo un momento di silenzio, diceva in sardo: “Nonna, accendi il racconto”. Come se fosse fuoco per scaldare gli altri. Questo imprinting mi è rimasto: per me stessa non scrivo nulla.
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