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anteprima: “Resto umano”

Da Uiallalla
Proponiamo alcune pagine di “Resto umano” di Anna Paola Lacatena (Chinaski), che sarà presentato giovedì alle 18.30 al Chiaia Hotel (via Chiaia, 216 a Napoli): la storia di Miki Formisano “che non si è mai sentito donna”, FtoM (trans da donna a uomo) oggi vice presidente nazionale di NPS Italia Onlus

la copertina de libroNel 1981 cominciò a diffondersi una nuova malattia capace di distruggere il sistema immunitario, rendendolo facile preda d’infezioni normalmente contrastabili dall’organismo. Questo male, dapprima associato agli omosessuali, spostò subito dopo le sue attenzioni agli emofiliaci. Un paio di anni ancora e fu il turno dei tossicodipendenti.
Nel 1984 l’HIV fu identificato come l’agente causale dell’AIDS. Nel 1985 toccò a me. Spesso, più la malattia è grave minore è il numero dei segnali che è disposta a mandare. Esperta della strategia di guerra, opera nell’ombra, minando il numero e la resistenza di quei soldatini deputati a difendere l’intero accampamento.
Poche informazioni, neanche l’ombra di un farmaco, all’inizio fu solo la comunicazione di un medico del Ser.T. dal camice bianco, fattosi toga nera, che, scorrendo un lungo elenco di nomi, arrestava l’indice a ogni segno “+”.
Una scrivania tra dottore e paziente che, come per nessun’altra malattia, è distanza e protezione.


“Sei risultata positiva al test.” Poche parole, accompagnate da una dose ancora più ristretta di sensibilità, a porre l’accento sulla nostra comune ignoranza in merito. Con una differenza: per lui non cambiava niente. Per me, ogni possibile giorno futuro.
Sospesa tra la vita e la morte, ho scelto quest’ultima. Ho scelto di continuare a farmi, di delinquere, di affrontare con tutta la durezza che avevo in corpo quel mostro che in quello stesso corpo aveva deciso di accasarsi.
Muoio ma come dico io. Se prima facevo dieci, adesso faccio venti. Se la tossicodipendenza mi sembrava di averla scelta in prima persona, la sieropositività cercava di togliere, con provocatoria arroganza, ciò che di quella persona restava.HIV, tre lettere che mi regalavano uno stigma. L’etichetta dell’appestata. La condizione irreversibile di mina vagante. Io stessa mi sentivo defraudata di una sorta di perversa capacità di autodeterminazione: temevo di non potermi più dare quella morte che faticavo ad accettare come prerogativa di un agente esterno.
Com’era già capitato altre volte, l’ospite rubava in casa mia. La prima persona cui ho comunicato di essermi infettata è stata mia madre. Chi mi abbia trasmesso il virus mi è impossibile determinarlo. E non saprei individuare la prima persona che ho infettato. A quel tempo nascondevamo a noi stessi e agli altri la nostra sieropositività. Fingevamo, negavamo, continuavamo a farci in più persone con un’unica spada.
Se a partire dalla metà degli anni ‘50 il consumatore di sostanze era equiparato al produttore e allo spacciatore, con una legge del 1975 lo stesso fu ribattezzato soggetto debole socialmente, considerando alla stregua di una malattia l’utilizzo di stupefacenti.
Con una speciale causa di non punibilità, sulla scorta del concetto di modica quantità, almeno sino agli inizi degli anni ‘90 i tossicodipendenti hanno goduto della tolleranza stabilita dalla norma. Lo stesso non poteva dirsi in relazione all’ambiente e alla cultura dominante.
Di politiche di riduzione del danno non si sentivano che brevi accenni, echi che provenivano dalle grandi città del nord. Noi continuavamo a farci senza alcun tipo di profilassi. Immersi in meccanismi che hanno solo accentuato il diffondersi del virus. Consueto era vedersi negare siringhe pulite: “O paghi o chiamo la polizia.” Arrivavano le forze dell’ordine o, spesso, sostavano volutamente in prossimità delle farmacie. Chiedevano informazioni, pretendevano nomi. In cambio non ti sequestravano il pezzo. Questo rimaneva a te, a loro una sorta di pizzo. Temendo spiacevoli incontri, molti tossicodipendenti utilizzavano la stessa spada per buchi condivisi in gruppo.
Oggi definisco quella condotta da incoscienti. Più realisticamente, è da tossici. Quando senti l’astinenza, non c’è futuro di cui preoccuparsi. Che dietro l’angolo ci sia la morte non è un deterrente ma una condizione acquisita. Finisci per farci l’abitudine.
Non c’erano farmaci per i maledetti e meno che meno speranze: perché avremmo dovuto prestare più attenzione? Una persona comune decostruisce la morte, la frantuma in piccoli blocchi perché le fa paura e non può reggere il suo sguardo. Si dispera, andando dietro alle inezie per privarla del suo potere. La guarda con una al centro di ogni sua azione. Pensa di vincerla per il solo fatto di non nominarla mai.
Chi si fa di eroina la morte la sfida, la cerca perché le riconosce un perverso potere creativo. Un piacere comunque in altre forme inarrivabile. Più volte l’ha incontrata. Come passeggeri di una stessa linea metro, si sono urtati tante volte. Se l’una scendeva, l’altro saliva e viceversa. L’eroinomane la guarda diritto negli occhi e la esorcizza facendone quotidiano. Il tossicodipendente in HIV finisce per apprezzarne anche la fedeltà. È l’unica che
veramente non gli volterà mai le spalle.
Non è coraggio, però. È più semplicemente affinità.

Per gentile concessione dell’autore

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