Sarà presentato giovedì 13 ottobre al Chiaja Hotel il volume “Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia della dolce vita” di Andrea Pini (Il Saggiatore). Il testo è integrato da foto d’epoca e da venti interviste ad omosessuali, oggi anziani, che raccontano le vicende di allora. Vi proponiamo in anteprima alcuni stralci dall’introduzione.
Ci racconta Gian Piero Bona che durante il conflitto, la sua famiglia, ad esempio, nascose e ospitò per tre anni un ragazzino ebreo, suo compagno di scuola. E sempre Gian Piero, rampollo di un’ottima famiglia della borghesia industriale torinese, ricorda che, con la liberazione, lui poteva permettersi di invitare a casa soldati americani incontrati per strada, cosa che rientrava nello spirito di apertura del periodo. E con quello stesso spirito Gian Piero faceva l’amore, di nascosto, con quegli stessi soldati.
La caduta del fascismo non aveva però spazzato via ogni forma di controllo sociale sull’omosessualità, tutt’altro. La morale “pubblica” era sempre sotto la mannaia della Chiesa cattolica e dello Stato, e il potere politico significava prima di tutto Democrazia Cristiana, cioè nella migliore delle ipotesi perbenismo, ossequio al Vaticano e tradizione. Lo Stato democratico italiano aveva mantenute inalterate tutte quelle forme di contenimento poliziesco come le denunce per atti osceni, per offesa al pudore, per la corruzione dei minori (che allora erano tali fino a 21 anni, fino alla legge dell’8 marzo 1975 che ha portato la maggiore età a 18 anni), per resistenza a pubblico ufficiale e oltraggio, per atti di libidine violenta su minore e adescamento, atti immorali in luogo pubblico… i fogli di via, le denunce per contravvenzione alla diffida di rientro, i fermi cautelativi per persone sospette, il confino, e, dopo la legge Merlin del ’58, il favoreggiamento, lo sfruttamento e l’induzione alla prostituzione. E queste misure di polizia erano diffusamente usate contro gli omosessuali che la notte popolavano alcuni parchi e strade delle grandi città, e non certo perché la stragrande maggioranza di loro fossero dei delinquenti, ma semplicemente perché erano omosessuali. Quando qualcuno di loro era fermato subiva immediatamente la schedatura, e da quel momento era inserito in un casellario dei cittadini del terzo sesso, come allora venivamo definiti. Bastava poi una denuncia per atti osceni o per adescamento e l’omosessuale diventava un “pregiudicato”, uno che la Polizia non solo teneva d’occhio ma in qualche modo poteva anche ricattare. Racconta Dominot, un artista che dalla fine degli anni ’50 vive a Roma, di essere stato innumerevoli volte fermato dalla polizia perché “batteva” il marciapiede e di aver passato varie notti a Regina Coeli.
Anche la magistratura faceva la sua parte repressiva e punitiva: moltissime le sentenze di condanna nei confronti di gay in quegli anni per le varie imputazioni sopra riportate, come ricorda lo studioso Gianni Rossi Barilli. Ma la magistratura agiva anche su un altro fronte, quello della censura: non si contano i libri condannati al rogo perché ritenuti immorali, come ad esempio quelli di Giò Stajano, che è uno degli intervistati in questo testo. E ancora la magistratura in quegli anni ha bloccato film, spettacoli teatrali, “ripulito” testi scomodi, sempre a danno di autori gay che osavano rappresentare il vizio nefando senza condannarlo in modo definitivo! Ne hanno fatto le spese fra gli altri Bernardino Del Boca, Luchino Visconti, Giovanni Testori e soprattutto Pier Paolo Pasolini. Pasolini ha subito una serie impressionante di processi, ben 33 a partire dal 1949 e fin dopo la sua morte, la maggior parte dei quali legati a tentativi di chiudere la bocca ad un intellettuale scomodo, che parlava anche di sessualità e di omosessualità, e osava rappresentarla.
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