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Anthony Trollope – Orley Farm

Creato il 04 luglio 2014 da Povna @povna

L’idea di riprendere in mano il meno noto tra i vittoriani nella provincia italica (in Albione, non bisogna farsi trarre in inganno dalla nostra miopia letteraria ottocentesca, Trollope è viceversa assai conosciuto, e amatissimo) gliela ha data Murasaki, con la sua recensione di qualche settimana fa, per il venerdì del libro.
La collana del “Gioco delle parti” invece la conosce da tempo anche perché la ‘povna – per lavoro e per scrittura critica – non è del tutto estranea dalla letteratura giudiziaria. Che, attenzione!, non è il cosiddetto legal thriller – definizione quanto mai da wikipedia e priva di spessore narratologico – ma vuole indagare, viceversa, che cosa succede quando la letteratura e diverse altre forme di narrazione si trovano “davanti alla legge” e un testo si trovi dunque a veicolare la rappresentazione di procedimenti legali (completi o meno, non importa), la discussione di una norma, di una legge o di un decreto che costituisca il fulcro del testo, la raffigurazione di personaggi legati al mondo della legge, la discussione narrativa del problema della definizione della giustizia e del diritto, in questo modo ponendosi domande su come la presenza del diritto segni le forme testuali e le posizioni autoriali di determinate narrazioni.
Si tratta di una questione che, con ogni evidenza, risulta particolarmente importante nella letteratura anglosassone, perché l’isola britannica, protetta sin dal Medio Evo (signori, 1215!) dall’ombra familiare e politicamente pretesa (dal basso) della Magna Charta, ha appreso la necessità di confrontarsi con un non eludibile diritto fin dagli albori della sua stessa fondazione.
Orley Farm non fa certo eccezione in questo senso, anzi. E, se il processo cui si allude per tutta la narrazione lunga (due volumi a contare oltre mille pagine) occupa nei fatti poco meno di un quinto del romanzo, è la natura stessa di concetti quali colpa, innocenza, diritto alla difesa, accusa e testimonianza che viene sviscerata nella storia.
Nello stesso tempo, “romanzo giudiziario” è un’etichetta francamente riduttiva, per il romanzo. Certo, se si pensa alla coralità dei personaggi che fanno scena e controscena, la “causa” è e resta il filo rosso, il tema protagonista che tutti e tutto lega. In ogni caso, la storia vale la pena e basta, e va letta gustandosi il senso della narrazione a puntate, di un narratore onnisciente ma non invasivo, della contrapposizione tra caratteri non esibita ma evidente, della capacità di affiancare ai protagonisti una serie di personaggi secondari corposi e significativi di un autore che sa costruire l’affezione del lettore con la serialità di Dickens, ma vi affianca uno sguardo sociale à la George Eliot.
Anche se, come si diceva, sotto traccia non passa mai la riflessione sulla giustizia, sul peccato e sul reato, sul sistema giudiziario inglese e sul ruolo della giuria e dei giudici – una riflessione, per tutto quanto si è detto, sul fondamento stesso dell’inglesistà più pura, dunque. Sulla quale l’autore ha parecchio da dire, e fa dire, attraverso i personaggi cui va la sua parzialità romanzesca, ma che nello stesso tempo ha cura di lasciare come vero lascito di un dibattito da aprire.


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