colpo d’occhio sulle posizioni della poetica di Roberto Cogo
Pare che anche nella nuova raccolta per ora inedita, Un confine mobile, come già nelle puntuali occorrenze delle raccolte precedenti di Roberto Cogo, la sua parola si pronunci entro un atto di natura.
Sarebbe però discontinuo, inadeguato, suggerire che quella pronuncia parli “della” oppure “alla” natura, pur ricorrendo nei testi il vario repertorio delle situazioni e degli elementi naturali: l’acqua, l’aria, il bosco, l’ombra, le nebbie, la neve e via dicendo.
Ciò che radica infatti il timbro della voce poetica di Cogo non è dialogo, didascalia o provocazione rivolta al dato naturale, bensì limpida prova scritta di consustanzialità.
La poesia di Cogo è in questa precisa accezione una poesia “naturale”, perché intonata in continuità con la gravida e pervadente sintassi della natura stessa.
Il poeta non agisce qui come artefice di un racconto né come arbitro di una disputa o mentore di una complicità tra il soggetto e il dato naturale, bensì come mero filtro attraverso cui l’aperto gioco degli elementi passa producendo un suono vocale, il cui incanto antropologico consiste nell’essere, a differenza di tante altre musiche (o musichette) paniche, vibrato nel pensiero.
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La struttura profonda che produce la voce poetica di Cogo ha, probabilmente, la forma di uno scacciaspiriti: un oggettino fatto in casa con spago e pietruzze, conchiglie e cocci di vetro, una sorta di sonaglio che appeso a un’arcata interiore ciondola alla brezza producendo fruscii sillabici, esito delle stesse correnti d’aria che il tremulo aggeggio va poi a sussurrare alle pagine.
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La timbrica naturale del libro, del resto, è più volte segnalata dalle epigrafi tolte da testi orientali, e in primis dalla prescrizione iniziale:
Chi non ha cura della natura si lascia invadere dalle passioni che pullulano come rovi.
Si tratta di un’indicazione altamente segnaletica, un po’ come la nota di Kafka (ripresa da Antonella Anedda): fra te e il mondo prediligi il mondo, che nel caso di Cogo potremmo trasformare,
fra te (e te) ascolta e restituisci (il mondo).
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Ed è con precisione balistica che, come una siluette d’ombra dietro la pagina di Cogo, si può centrare al primo colpo d’occhio ermeneutico la presenza di un metro tutelare, anche se non certo “nostro”: l’haiku.
L’haiku, della cui concisione fulminea sono ospiti fissi il tema naturale e il suo rilancio allegorico o filosofico, sembra fornire l’intonazione e la progettualità di fondo della raccolta, che ovviamente tracima e devia del tutto dalla misura fissa della terzina quinario-settario-quinario, ma che poi nella sezione “prà minore” la ripristina, evitando di contarla con esattezza, ma certo riattivandola in nuce, nella sua portata indicativa e strategica di poesia breve che fonde un dato naturale estraendone un cameo di pensiero.
Questi piccoli segnali fondativi – l’oriente, l’haiku, e quindi la natura offerta in continuum con il filosofema – forniscono i termini perimetrali della poesia di Cogo, una poesia il cui mandato di fondo è l’unità.
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Cogo, nel personaggio implicito che abita la sua poesia, inquilino transeunte di boschi e brume, ad essi fraterno al punto da dismettere a priori qualsiasi slancio ecologista o estasi da dissolvenza panica, nulla ha a che vedere con una fra le tante ideologie della natura, e nemmeno con le sue principali poetiche.
Il poeta di Cogo non è il dandy dannunziano dell’Alcyone, prestato alla selva e di essa divenuto carne virente o stampigliato sulla rena fino a trasformasi in solare divinità della foce; né il pascoliano alchimista rurale capace di infondere nelle apparenze del campo arato o del calice ombroso, sentimenti, turbamenti e sessi. Non è il camminatore nevralgico che va apparendo nel “desolato autunno” di Zanzotto, e seppure conosca tutto questo, la sua voce non cerca, bensì custodisce in sé un’intattezza che ha davvero poco a che fare con quanto sopra.
Da dove giunga a Cogo l’assenza di frattura che è la nota portante del suo scrivere, non è questione semplice. Non è questione letteraria ma forse, principalmente, è una questione “vitale”.
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C’è in Cogo, nella sua persona poetica, intendendo questa come l’onda d’urto complessiva e peculiare che proviene dai testi, un elemento di serena non appartenenza che si rivela basilare, un distacco non approdato a freddezza, un dispatrio che pare aver trovato ante litteram il suo asilo.
C’è una sorta di tranquilla assenza di tutta la serie delle nevralgie intellettuali che rendono la nostra poesia in gran parte – e si badi nei suoi esiti migliori – una poesia dolente.
In Cogo questa carie, pur tanto produttiva e alta di dizioni indimenticabili, si scopre curata, riversando il male delle cose in uno stupore di fondo, una vertigine ferma come di chi, chino tra sé, a un tratto guardi nel sole, s’accorga di quel rogo, se ne accechi e un poco se ne bei: comprenda che ciò è possibile, è ammesso.
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Di sé il camminatore dei boschi e delle brume infatti precisa:
io non osservo — partecipo
gettandosi alle spalle sul sentiero queste parole come briciole che subito seguiremo.
È lungo questa pista che si giunge all’assenza di frattura e alla conseguente naturalità dell’agire poetico.
La cosa vista, la situazione attraversata, il dato o il personaggio naturale non si trovano sotto l’occhio del poeta ma appaiono insieme a lui.
E il poeta non parla di loro o con loro ma tra loro.
Parla come loro parlano, o meglio: splendono, trillano, frusciano, s’adombrano, tacciono. La poesia diviene dunque questo solo – ma non solitario – sussurrare tra sussurri, pronunciare tra gridi e cinguettii, fra un’ondeggiante condivisione alberata.
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È forse qui il “confine” del titolo: cum finis, l’etimo della parola è custode dell’essere insieme – cum – sul limite – finis.
Cogo, già con la ciondolante perlustrazione rasoterra del suo Io cane, continua a pattugliare questo “essere insieme” su un “limite”.
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Perciò la sua poesia ha una franchezza indenne da qualsiasi sfiato psichico eppure è una poesia pensante (e pertanto non: pensata).
È pensante questo suo stare sul limite insieme a.
Insieme a ciò che a sua volta a quel limite si accosta.
La poesia è pensante perché accade nel cedere del pensiero alla voce.
È questa la poetica affidata all’ultima poesia della raccolta, non a caso un manifesto inserito a suggello del libretto:
quando si scrive non si pensa. si è dentro al momento e non si pensa
L’attenzione qui va mirata alla congiuntura felice che in Cogo salda dizione, ideazione e azione, tanto che si potrebbe chiosare:
non si pensa perché dicendo si sta pensando
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La parola poetica non sarà quindi che un mormorio tra i sibili del bosco, un borbottio sul ciangottare del lago. E, soprattutto, la lievissima frizione tra queste due dizioni, l’una raccolta e umana, l’altra vasta e cosmica.
Un sottile contrabbando avviene sul confine come luogo dello stare insieme, accanto.
Ma, precisa Cogo, quel confine è mobile.
Dalla mobilità del confine derivano i continui smottamenti di una giurisdizione nell’altra, slittamenti che liberano le micro variazioni interne a un testo programmaticamente umbratile e suasivo.
Anche da Cogo, come dal manipolo dei poeti italiani contemporanei immuni dalle tresche dell’intimismo o dalle sbornie egocentriche, giunge il dono più gradito, la defenestrazione del soggetto e la comparsa della persona poetica, sola accanto al mondo, nella insondabile prossimità.
Paolo Donini
***
messaggi sulla corteccia
olmi salici e qualche betulla con un chiurlo
sconsolato a dichiarare una presenza
un punto di vita personale -
fischia un dubbio nel messaggio
dove il legno mette a nudo il proprio enigma
impresso sul tronco dei faggi -
l’ideogramma di un pensiero naturale
*
lago di lucerna
piove sul lago di lucerna – territori
bassi di nubi distese sui rilievi alberati
nell’umida flora rigonfia di umori
si proietta verso sud una luce incostante
a cambiare il volto ai suoni e alle parole -
nudi paesaggi segnati da frontiere
da contrasti illusori di lingua e pensiero
*
luce e vapore
un’immensa montagna di vapore e luce
nel riflesso grigiastro delle pagine di viaggio
negli studi perpetuati tra sonni e veglie
un rollare lontano tra varchi e penombre
stillando in flutti dalla livida roccia
l’acqua scende a valle in lunghe strisce di bianco
risuona tra immagini e parole – qui sono le chiese
scolpite sul fianco dei monti nella pietra grigia
nella stretta della valle si pensa già all’arrivo
si ripercorre ogni via in un tumulto sognante di rupi
fino alla casa delle origini e oltre gli inizi -
dove il sogno si raccolse in mille sfumature
*
giornata atlantica
in questa giornata atlantica la luce
sembra percorrere l’imprevisto delle nuvole
sciogliendo in squarci e spacchi un cielo che trabocca
risuonano le cose nell’involucro purissimo dell’aria
come in attesa di un più trasparente desiderio
rivolto al cristallo fine della mente
*
assetto da contemplazione
la cornacchia sul tetto di lamiera
catramata – i rapidi passi sonori
come i palpiti di una fuga -
un tonfo al desiderio che bussa
sulla porta-finestra del tempo
nel silenzio lucente del corpo
si stacca in volo con una scossa
levandosi nera nel grigio dell’aria -
penne piume zampe becco – tutto
in assetto da contemplazione
si è e si va in un flusso vibrante
di esseri e cose – sguarniti
senza piume né parole
*
estinzione
c’è un cielo che irride ogni nostro silenzio -
statiche schiume bianche di scie d’aereo
graffiano in pieno volto
c’è un precipitare improvviso di ghiande
seccate al gelo dell’inverno – lo sconforto
dei lecci allineati alle rovine del castello
c’è un estinto scoiattolo sorpreso
dalla febbre che gli rumina le ossa
macinandogli l’esiguo prodigio nel cervello -
la nube bianca della mente li trattiene
è la foschia in calo dalle palpebre
a marcare i rami degli alberi – sì gli alberi
mentre svettano neri sulla rabbia del mondo
*
un istante prima di svanire
il viaggio non ha fine
attraversa campi riarsi cumuli di detriti
senza mai svilire il suo sogno
la mente si riempie di foglie di betulla
seghettate ai bordi senza mai ferire
un corpo vestito di funi tatuate a croce
il tronco leggero delle robinie
ventagli di foglie simmetriche allineate
si schierano nel viaggio di ritorno alla luce
nella bellezza di un inizio che non sfiorisce
il viaggio non ha fine
*
sentiero delle creste (monte summano)
io la quiete della montagna–tu il movimento dell’acqua
tutta l’oscillazione dell’universo nel sentiero
che s’inerpica e scende di continuo
ribadendo un’insondabile follia–sul filo di una cresta
tra una valle e l’altra un pino mugo nano
ritto tra cumuli di sassi bianchi
ciuffi d’erba alta sventolano al vento
l’altra giallognola pestata dalle intemperie–
una stessa insondabile follia
*
verbi nuovi
sotto l’azione del vento
una foglia oscilla
si stacca dal ramo e cade
si posa sul cumulo marrone
nasconde l’erba alla vista
muta il paesaggio–
ogni cosa in subbuglio-
il cielo cambia aspetto
all’improvviso
il sole declina i suoi raggi
come fanno i bambini
con i verbi nuovi–
il mondo sarà altro
dopo il canto del cuculo
nel boschetto
*
muro vecchio
si scrosta il muro vecchio abbandonato a se stesso
muta nel sole dell’estate nel gelo del vento
in inverno cambia aspetto
trasforma ogni memoria ogni rimpianto
noi si sta dentro a tutto
*
quando si scrive non si pensa. si è dentro al momento e non si pensa. quando si è dentro al momento e si scrive allora non si pensa. si scrive soltanto dentro al momento. si scrive e non si pensa. si è dentro al momento e dentro al momento non si pensa. si può anche pensare dentro al momento. allora non si scrive ma si pensa. appena si torna a scrivere si smette di pensare. si è dentro al momento e dentro al momento non si pensa
si percorrono strade si percorre il vento. strade diverse e vento sempre mutevole e diverso. ci si lascia alle spalle qualcosa che s’inombra e svanisce lento. il tempo non è che una sacca buia di tempesta. una nebbia improvvisa in risalita dalla palude. la nebbia del tempo avvolge la mente avvolge le strade della conoscenza. si è dentro al momento quando si scrive. non si pensa