© Gianfranco Budano: Natale salentino
Sabino AcquavivaHo nostalgia del presepe, di quel natale di tanti anni or sono. Ma non so se la nostalgia è soltanto mia o di un’intera società che ha perduto molti legami con la propria storia
Certo, la nostalgia è di tutti, ma il Natale di una volta rimane più sognato che vero. E tuttavia, ancora oggi, Dicembre rimane il mese simbolo della nostra vita, il mese del “redde rationem”, del “noi siamo”, dell’ultima verità; e l’ultima verità è che “Dio non sorvola più le acque come nell’affaccendarsi della creazione, ma è qui, tra noi”; è fra le travi, le greppie e scoli, nel caldo di una stalla, quel caldo sicuro, costante e pacifico che viene dagli animali, il loro fiato umido e innocente che sprigiona la vita, e che ancora oggi ridiventa cosa viva in un presepio salentino, come ci ricorda il gallipolino Agostino Cataldi:
Aggiu fattu nu Brasepiu,
ca è cosa te nnamuri
su na banca, mmienzu casa,
cu la crita e cu li suri
Aggiu misu li pasturi
Ciucci, vacche e pecureddhe;
nu massaru, nu furnaru
e nu macu de le steddhe
Ed ecco che “al suonar delle campane, come nata per la prima volta, ci abbaglierà la luce, la stessa che videro i pastori e fu forse l’esplodere stesso degli angeli che li avevano svegliati e si frantumarono in una miriade accecante quando raccattarono le zampogne e corsero alla stalla“.
Natale è quel ritorno alla luce, questo ritorno del nascere, questa grazia che arriva dai pifferai, dai suonatori di flauto di De Gregori che hanno il capestro già sul collo:
Eccu, già s’ha ‘mbicinatu
Chianu chianu lu Natale;
ogni notte disciatati
de la vecchia Pasturale…
sonaturi de cimbarra,
de fischetti e piumini
Natale è, per il neretino Pantaleo Ingusci, una voce di contadina che canta con virginale chiarezza e le note di quel canto diventano un’arpa misteriosa quasi celeste, come è sempre quando è voce di donna giovane e pura e bella.
Il canto salentino – annota Ingusci – ha tutti i toni dell’oriente e dell’occidente, la luce di un cielo sereno e il fremito dei mari che fluttuano intorno alle sponde di questo vecchio Salento, porta e crocevia di tutte le civiltà. “C’è sempre, dentro quella voce, qualcosa di amaro, come di una legge di tristezza e di dolore che incomba sulla vita. L’anima salentina è fatta così, nel canto dei nostri contadini, nel loro canto d’amore s’insinua il sentimento del dolore che viene dalla natura, una natura difficile, una terra spesso arida, avara fatta di sasso e di roccia affiorante con poche oasi rigogliose, terra rupestre dalle cui viscere sorgono, ieratici e solenni, pensosi e millenari i boschi d’ulivo“.
Quegli ulivi che – secondo Salvatore Coluccia – saranno fondamentali per il divino Bambino, Giuseppe e Maria, fuggitivi, inseguiti dagli sgherri di Erode; l’angoscia dell’avvicinarsi dei soldati, il terrore della mancanza di un sicuro rifugio, induce Maria alla disperazione. Di fronte a lei, a suo marito e al Bambino s’ergono maestosi gli ulivi: “Apriti ulia / e scundi Maria”, implora la Vergine. Da allora l’ulivo – scrive Coluccia – ha scavato il tronco quasi a testimoniare l’aiuto decisivo per la Salvezza del Bambino.
Ma com’era il Natale nel Salento? “Arrivava – dice Ingusci – con la tramontana che spazza le nubi e fa tornare il sereno, dopo le lunghe settimane di piogge che avevano adduggiato il cielo. Si sentiva l’aria di Natale, con gli zampognari che erano scesi dai lontani monti d’Abruzzo, e i presepi che uscivano in piazza sulle bancarelle, croce e delizia di mamme e bambini. Il presepe, il presepe, è un’arte e non solo culto, le nostre popolazioni umili sentono che in esso c’è la elegia della loro povertà, quasi il poema della miseria, ed è l’unico momento nella loro vita in cui non è considerata una nota di degradazione e di maledizione, ma di poesia. Gesù era povero e non si vergognava della sua povertà e i poveri perciò davanti alla capanna del bambinio cantano con rapimento la pastorale e le canzoni di natale”.
Ma il popolo ha bisogno di poesia? Certo, dice Simone Weill, il popolo ha bisogno di poesia come di pane, ma non già la poesia racchiusa nelle parole, di quella non sa che farsene. Ha bisogno che sia poesia la sostanza quotidiana della sua stessa vita e una poesia simile può avere una sola sorgente, Cristo.
E tutti, dice il novolese Alfredo Mangelli
puireddru o riccu, unestu o malejurnu
cerca cu scanza lu terrenu male.
Stu giurnu am piettu nuesciu tanti fiuri
nascennu janchi e puri come nie:
fiuri te pace, amore e auguri
tanti e forse cchiùi te le tanìe.
Cussì la terra torna Paraisu,
china sulu te angili te diu…
Ma passa òscie e ‘ncigna poi te nueu.
Stu Munnu cu cammina capisutta:
ognunu torna bb’essa nu giudéu
cu ll’eguismu sou ca ccite e sprutta…
Perciò Mamminu miu, nasci ogne giurnu!
Nasci!…St’Umanità ne hae bisuègnu.
Lo ricorda, il Natale di tant’anni fa, il sannicolese Marcello Musca, quando “al ritorno dalla chiesa la taula era apparecchiata. E insieme a tutta la famiglia era seduto un povero, – ma un povero vero, uno di quelli che giravano chiedendo l’elemosina per sopravvivere – che era stato invitato per far godere anche lui il vero spirito natalizio, la carità cristiana, fargli dimenticare per un poco i diversi aggi pace con cui gli si negava un tozzo di pane, magari ammuffito, e gli si chiudeva la porta in faccia negli altri giorni dell’anno. Si mangiavano le sagne o li maccarruni e mescolate tra essi le ricchiteddhe preparate con gli avanzi della pasta e scovate dai figli più piccoli tra l’euforia generale e le sgridate paterne. Accompagnavano la pasta le polpette soffritte ed i panzarotti di patate. Nel pomeriggio avveniva la visita in casa di parenti e amici, per lo scambio degli auguri. Ci si rimaneva fino a sera inoltrata per le grandi tombolate tra un bicchierino di rosolio e l’assaggio dei dolci natalizi I piccoli erano invitati ad esibirsi con la ripetizione della lettura della letterina messa sotto il piatto del babbo e la recita della poesia del bambinello.“
Quello era Natale! Dice la poetessa di Minervino Antonietta De Masi Calamo:
Quiddhu era Natale
quando la campana
te matinu
ulàa subbia dhe case
Core a ccore,
a descetàa le speranze
per nn’autra sciurnata
te fatia e de dolore
Quiddhu era Natale,
quando cu nna tàula te liettu,
na francata te paia de saccone,
qualche pupu te gessu spezzutatu
faciamu lu presepiu
e la fame era sulu
recordu Te lu ieri
Quando tutto sembra affondare nell’imbuto più buio – guerra, terrorismo, disoccupazione, tasse, rincari e preoccupazioni varie -, quando sembra di dover finire in uno di quei buchi neri dal mostruoso risucchio, ecco il buco bianco del Natale, il Natale di “sempre”, che è in tutti i tempi e in tutti i luoghi del mondo, Natale con le antiche gerarchie e gli antichi poteri fondati sul sentimento. E torna re il nonno, il vecchio acrobata della fantasia, il custode della Memoria, che farà stanotte un lunghissimo salto nel passato: “Nonno, ma tu c’eri quando Gesù è nato a Betlemme?“
E il nonno, certo che c’era, parlerà dei quattro (?) re magi!
‘Ncete puru quattro Maggi,
can ci brillane ppe l’oru:
lu Re Tromba e lu re Bbecchiu
‘u Re carusu e lu re moru
De natale stu brasepiu
L’aggiu tuttu ‘lluminare
Ste lucerne e ste candele
S’hane tutte de ddumare
“Finchè l’umanità sapra conserverare questo poco di tenerezza, – scrive Coluccia – finchè saprà commuoversi per queste piccole cose, io credo che abbia ancora la possibilità di superare il grande travaglio in cui vive Per un anno che muore, – conclude Luigi Santucci – ecco un Dio che nasce, un Dio d’umanità, ma anche d’Eternità, per il quale vale la pena di richiudere l’armadio, vale la pena di rimuovere. E di continuare ad aspettarlo”