
L’ASPRO DEI POETI[1](Ci piace pensare…)
[ … ]Ci piace pensare che i volumetti di Antologia Aperta siano il frutto di una piccola comunità. Ci piace pensare che i nostri Autori siano coscienti che il loro messaggio (qualora e nella misura in cui il messaggio faccia anche letteratura) è affidato alle correnti: del mare, di un fiume, di un lago o di un modesto rigagnolo.Basta provare a navigare nella rete (chi di noi cerca, oramai, amanti come siamo dello stare in ‘internet’[2], la montaliana maglia rotta, “l’anello che non tiene” da cui evadere?) ed ecco che si spalancano le porte di ampi giardini (più o meno profumati) i cui limoni ammiccano a mature e fulgide foglie d’alloro. Altro che “… i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti”.[3]Ci piace pensare che il titolo di un intervento di Corrado Calabrò, Per la sopravvivenza della poesia uccidiamo i poeti! sia, a dir poco, esecrabile, sennonché, a salvazione, un ironico ‘explicit’: “(…) Dopo un decennio di purgazione, i nostri figli – forse – potranno tornare a gustare la poesia. Prima di porre la testa sotto la mannaia, ho diritto, però, come condannato a morte, a esprimere un ultimo desiderio. È questo: di leggervi, sul patibolo, alcune mie poesie. Aver compagni al duol...”.[4] Uccidiamo anche i piccoli editori,‘approfittatori’, ‘ingannatori’, rei di continuare un esercizio ‘dietro compenso’ sol perché la ‘poesia non vende’. Certo, non tutti gli editori sono uguali, come non tutti gli uomini, e, certo, un macellaio che non vende carne ha più diritto a non regalarne, se la carne è carne e non parabola di spirito. E perché non organizzare un suicidio di massa, poeti-scrittori-narratori-editori? Siamo tutti colpevoli.Ci piace pensare, a noi promotori di “Antologia Aperta”, che i nostri Autori siano consci della loro bravura (altrimenti che scrivere a fare?), di avere qualcosa da dire (se tutto è stato detto, cambia pur sempre il modo di dirlo), ma ugualmente consapevoli che “(…) Chi fa poesia solo con l’ego non riesce a vederne la sofferenza, perché l’ego non soffre mai. (…) L’ego non è l’io. L’io lirico è uno strumento poetico fra i tanti, e riceve poca gloria per la pena che si dà (…)”[5] Ci piace pensare che questa nostra iniziativa sia avallata solo e soltanto da chi ammette che “(…) essere un poeta vuol dire chiedere troppo alla vita e dunque gettarla via proprio per mettere le mani su quel troppo, ed è questo e solo questo che rende, che deve rendere, i poeti spietati e generosi, nobili e assassini (…)”.[6]Ci piace pensare, infine, che questi nostri volumetti siano considerati come bottiglie di naufraghi, quasi inutili SOS dagli alfabeti incerti, dalla meta improbabile, e che tutti possiamo dire con Montale: “Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni”.[7] L’editore(Dalla Nota editoriale ad Antologia Aperta 5)
[1] Abbiamo voluto dare questo titolo, ma ci si riferisce anche ai narratori e, perché no, agli artisti in genere.[2] Ricordiamo l’etimologia della parola “internet”: voce ingl., ‘rete' (net, di orig. Ger.) tra (inter-, di orig. Lat.), cioè che collega.[3] Cfr. Eugenio Montale , I limoni, in Ossi di seppia, 1925.[4] Da Corrado Calabrò, Per la sopravvivenza della poesia uccidiamo i poeti!, in Poesia, n° 143, Ottobre 2000, p. 62.[5] Da Alessandro Carrera, la poesia è pericolosa, in Poesia, n° 118, Giugno 1998, p.33.[6] Ibidem.[7] E. Montale, I limoni, op. cit.