Antonella e Salvatore, il dramma del paese reale. Lontano da Arcore

Creato il 19 gennaio 2011 da Marcotoresini

Antonella Riunno (da www.Corriere.it)

Antonella non è mai stata ad Arcore, nessuno l'ha mai invitata a quelle feste per settantenni e giovani, procaci, veline, a quelle feste di Stato. Ma Antonella, nei giorni del bunga bunga, è l'Italia che piange perchè lo Stato ballava discinto senza capire il suo dramma. Il suo dramma si chiama Salvatore, Catalano Salvatore, all'anagrafe, 55 anni, di professione operaio. Ora operaio morto. Il suo destino è stato comunicato al mondo, distratto dai festini del capo, ieri in una nota dell'Ospedale Niguarda di Milano, dove Salvatore era ricoverato dal 4 novembre scorso con ustioni sul 90 per cento del corpo. Le ustioni, si sa, sono una brutta bestia, ti lasciano nudo davanti agli eventi e gli eventi ti consumano piano piano, ti portano via, di erodono le speranze. Era già accaduto ad altri due amici di Salvatore, tutti lavoravano all'Eureco di Paderno Dugnano, un'azienda che tratta rifiuti nella quale agli inizi di novembre si verificò un'esplosione con cinque operai ustionati gravemente (in tre non sono sopravvissuti alle ferite). I giudici chiariranno le responsabilità di questa tragedia, ma per Salvatore e Antonella il dramma è ancora più profondo, più buio. Antonella, Riunno Antonella, 37 anni c'è scritto sulla sua carta di identità, era compagna di lavoro di Salvatore, è la custode dell'azienda dove è avvenuta l'esplosione. In quella casa vicino alla fabbrica Antonella e Salvatore (un divorzio alle spalle per lui) avevano deciso di ricostruirsi una vita di amore, un amore dal quale era nata Irma, una bambina di pochi anni. Un amore "clandestino" per lo Stato, visto che Antonella e Salvatore non erano sposati. Un amore che lo Stato, con l'ottusità di chi non vuol vedere e sentire, ha trasformato in clandestino a vita. Antonella e Salvatore, infatti, avrebbero dovuto sposarsi il 20 novembre, ma i progetti si sono dissolti come la pelle sul volto del povero operaio e dei suoi colleghi, svaniti in quella tremenda esplosione.
Antonella aveva sperato fino all'ultimo in quel sì sussurrato tra un soffio e l'altro di un respiratore, fra i bip del monitor che veglia sui parametri vitali. Bastava uno sguardo, un gesto d'assenso e il loro amore sarebbe uscito dalla clandestinità, la loro famiglia avrebbe avuto il "permesso di soggiorno" in questo Stato che fatica a riconoscere ciò che già c'è, a rispondere a situazioni che reclamano di essere ascoltate. «Ci sposeremo, ci sposeremo, era il nostro grande sogno, lo abbiamo sempre desiderato e lo faremo, ad ogni costo» aveva ripetuto Antonella nei corridoi dell'ospedale, accanto al sindaco di Paderno, pronto a tirar giù dal letto il funzionario comunale ad ogni ora della notte, non appena Salvatore avesse ripreso conoscenza.
Salvatore, però, è passato dalla fabbrica alla morte senza rendersene conto: non ha mai ripreso conoscenza, non è mai stato in grado di esprimere alcun consenso, nemmeno quel sì che avrebbe coronato il sogno d'amore con la sua Antonella.
Un coronamento non solo spirituale ma anche materiale, che avrebbe dissolto le incertezze che, da coppia di fatto, da famiglia senza diritti, ora si addensano su Antonella e la figlia Irma. Senza Salvatore e senza quelle garanzie che lo Stato contempla per la morte di un marito e di un padre, Antonella e Irma rischiano che il dramma sia ancora più profondo, che l'abisso ancora più duro da scalare, che la vita futura ancora più agra. Chi ringrazieranno ora Antonella e Irma? Uno Stato che ha sempre fatto finta che le coppie di fatto non fossero un problema? Uno Stato che con la scusa di preservare il matrimonio "classico" ha sempre lasciato inascoltata la voce di chi chiedeva diritti minimi perchè il futuro non dovesse più raccontare storie come quelle di Antonella e Salvatore travolti dagli eventi a due passi dal traguardo?
La storia di Antonella e Salvatore è la storia di un Paese reale e di uno Stato lontano. Di un Paese che piange a Paderno Dugnano e di uno Stato che canta ad Arcore. E la chiamano civiltà...

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