Antonella Stirati: “Senza lavoro il reddito minimo è una chimera”

Creato il 20 dicembre 2013 da Keynesblog @keynesblog

Antonella Stirati

Intervista di Roberto Polidori da Siderlandia

Abbiamo parlato di reddito minimo con Antonella Stirati, economista e professore ordinario di Economia presso la facoltà di Roma Tre, molto conosciuta per le sue ricerche sulla distribuzione del reddito e mercato del lavoro.

Qual è la differenza tra reddito minimo garantito e reddito di cittadinanza?

Per reddito di cittadinanza si intende un trasferimento monetario pubblico erogato a tutti i cittadini indipendentemente dal reddito, dal patrimonio e dall’occupazione. Per reddito minimo garantito si intende un reddito di sussistenza per chi è disoccupato, e la sua erogazione viene spesso legata non solo alla mancanza di una occupazione ma anche all’accertamento di una situazione di bisogno, accertata sulla base del patrimonio e del reddito familiare complessivo. Naturalmente la definizione di coloro che hanno accesso al reddito minimo può variare molto.

Il M5S ha parlato di un reddito di cittadinanza da 600 Euro mensili. Quanto costerebbe un sussidio del genere, secondo i suoi calcoli?

 Il movimento 5 stelle sostiene l’idea che si debba arrivare in prospettiva ad un reddito di cittadinanza. Questo costerebbe grosso modo tra il 20% e il 40% del PIL a seconda della somma erogata (tra i 350 e i 700 miliardi di euro). La proposta concreta però avanzata oggi dal M5S è una proposta di reddito minimo garantito da 600 Euro [in campagna elettorale Grillo aveva parlato di 1000 Euro, n.d.r.] da erogare a disoccupati in condizione di bisogno, cioè con un reddito netto al di sotto di 7.200 Euro annui. Resta da capire bene se deve essere considerato “bisognoso” il singolo individuo con reddito al di sotto di questa soglia indipendentemente dal reddito o dalla ricchezza del nucleo familiare di appartenenza. Proprio con riferimento alla definizione di soglia di accesso, possono nascere problemi. Se il reddito disponibile per l’individuo viene accertato a partire da quello familiare, la proposta si configura come uno strumento – assolutamente auspicabile – di contrasto alla povertà, ma che lascerebbe fuori molti disoccupati che convivono all’interno di nuclei familiari in cui entra un salario o stipendio, sia pure molto modesto. D’altra parte però, se si tiene conto solo del reddito dell’individuo, il numero di persone che avrebbe legittimamente diritto ad accedere al sussidio potrebbe diventare altissimo, poiché accanto a 3 milioni di disoccupati ufficiali in Italia ci sono molti milioni di persone che non lavorano e non stanno cercando lavoro (e quindi non risultano disoccupate) semplicemente perché non ritengono di poterlo trovare…

Quanto costerebbe?

 Naturalmente come dicevo dipende da come si definisce il diritto all’accesso. Se supponiamo di dare 600 euro al mese a 3 milioni di disoccupati contati dall’Istat in Italia ed altrettanti inattivi perché scoraggiati (ma potrebbero essere anche molti di più), ci vorrebbero circa 40 miliardi di Euro annui. Se venissero messe in discussione le politiche di austerità europee risparmiandoci le sanguinose manovre finanziarie  di rientro da deficit e debito, trasferimenti pubblici da 40 miliardi annui sarebbero molto ingenti, ma ipotizzabili. Mi chiedo se questi trasferimenti sarebbero politicamente e socialmente sostenibili.

Che cosa vuole dire? 

Non sono sicura che i lavoratori dipendenti sarebbero felici di contribuire al trasferimento di 600 euro annui al figlio disoccupato di un professionista benestante (nel caso il reddito sia garantito ai disoccupati che non hanno un reddito individuale, indipendentemente dal reddito della famiglia di appartenenza). La verità è che in Italia il numero molto elevato di persone che non hanno accesso ad una occupazione rende molto costoso economicamente ma anche difficilmente sostenibile politicamente e socialmente un reddito minimo garantito a tutti coloro che non hanno un lavoro, anche se sarebbe desiderabile ampliare il Welfare in questa direzione. Sono quindi essenziali politiche economiche di occupazione elevata, utilizzando in maniera consistente il bilancio pubblico per creare posti di lavoro. Fermo restando che sarebbe opportuno avere comunque un reddito minimo garantito come strumento di contrasto alla povertà.

Lei ha recentemente affermato in che ‹‹intorno alle proposte di reddito minimo vi è una insolita convergenza tra ‘movimenti’ radicali ed economisti liberisti››. Alla luce dell’analisi economica, lei condivide la visione di chi dice che “dobbiamo liberarci dal lavoro perché ce ne sarà sempre meno” e di chi dice che “bisogna scambiare un po’ di reddito minimo con maggiore necessaria flessibilità e precarizzazione?”

Dal punto di vista liberista il reddito minimo garantito è essenzialmente visto in termini di uno strumento per rendere possibile ancora più flessibilità e precarietà del lavoro. La convinzione che regge questo modello è, però, del tutto errata: la flessibilizzazione del mercato del lavoro, secondo i liberisti, garantirebbe elevati livelli di occupazione e la flexsecurity, quindi, sarebbe sostenibile in quanto si limiterebbe a garantire un reddito a pochi lavoratori disoccupati nelle fasi di transizione tra un’occupazione e l’altra. Gli studi scientifici dicono invece che non esiste alcuna relazione tra maggiore flessibilità e maggiore occupazione. L’elevata occupazione non può essere ottenuta rendendo più flessibile ed insicuro il mondo del lavoro: ci vuole uno Stato in grado di sviluppare una politica economica di alta occupazione.
I “movimentisti”, invece, partono dal presupposto che il lavoro sia ormai poco e precario e, quindi, considerano il reddito minimo come lo strumento per “liberarsi dal ricatto del lavoro”. Proviamo a immaginare che sia possibile trasferire una quantità tale di risorse da garantire a tutti senza condizioni una esistenza libera e dignitosa (il reddito di cittadinanza): il capitalismo probabilmente entrerebbe in grave crisi (perché le persone non sarebbero disponibili al lavoro salariato), ma crollerebbe anche la società civile. Chi, infatti, vorrebbe svolgere la pletora di lavori ripetitivi che esistono? E soprattutto chi e come organizzerebbe la produzione per mangiare, scaldarci e vestirci? Stiamo pensando ad una economia pianificata? Bisognerebbe discuterne apertamente…
Io penso che molto più realisticamente si debba pensare al reddito minimo garantito come ad un ampliamento del Welfare – che ha sicuramente un valore progressista, ma evidentemente non può da solo modificare radicalmente il sistema sociale ed economico.
Per restare ancorati alla realtà, un reddito minimo garantito inteso come rete di protezione per chi non lavora è auspicabile, mentre un reddito di cittadinanza dato ad ogni cittadino, anche occupato, si tradurrebbe in un sostegno indiretto alla imprese, che a quel punto potrebbero pagare meno i lavoratori [come succede in Germania con i mini-job, n.d..r], e proprio non vedo per quale motivo un’azienda privata che utilizzi lavoratori debba scaricare parte del costo del lavoro sulla collettività.

Lei avrebbe una proposta immediatamente cantierabile per alleviare il dramma della disoccupazione in Italia? 

Faccio un esempio: il minor gettito incassato dal Governo per la riduzione del cuneo fiscale ammonta a circa 5 miliardi di Euro e si traduce in inutili vantaggi in busta paga dei lavoratori di circa 10 euro mensili in media. Con questi 5 Miliardi lo Stato avrebbe potuto dare lavoro a 500.000 persone pagandole 800 euro al mese: un “piano del lavoro” di questo tipo avrebbe potuto mettere soldi in tasca di lavoratori, utilizzandoli per la manutenzione del territorio e degli edifici pubblici o per rendere più attrattive turisticamente le risorse artistiche e ambientali del paese.

A Lei risulta che il Governo abbia stanziato somme per il sostegno al reddito nell’ultima Legge di Stabilità?

 Il Governo ha stanziato 40 milioni all’anno per interventi di sostegno alle famiglie in condizioni di povertà, che è un importo ridicolo: consentirebbe un trasferimento di 400 euro netti mensili a poco più di ottomila famiglie, quando secondo l’Istat le famiglie italiane in condizioni di povertà assoluta erano  tre milioni nel 2012. E’ una presa in giro.

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