Gli anni che gravitano attorno al 1797, data che segna la fine della Repubblica di Venezia, danno conto, per l’arte veneta, di un’altra storia rispetto a quella che va scrivendosi nel resto d’Europa. Venezia era stata solitaria repubblica e autentico impero mercantile, terra di innovazioni e libertà altrove impensabili; troppo disincantata per lasciarsi sedurre dalla propaganda rivoluzionaria.
Quel millenario sapere però, la fornì di uno sguardo di sufficienza e finì con il renderla politicamente sterile. Una sterilità invece che il mondo artistico veneziano non subì. L’attrazione che l’incomparabile bellezza della città esercitava, continuò a generare un incessante travaso di energie dal proprio entroterra verso la laguna. Anche se la città lagunare venne isolata, anche se caddero tutti i sogni che per secoli avevano alimentato ideali di libertà e felicità, nel 1797 l’arte veneta non morì con la caduta della repubblica. L’aspirazione da capitale del mondo della città di San Marco, aveva sempre indotto la città lagunare a perseguire nell’arte un linguaggio classico che nei secoli si era incarnato nei suoi più grandi artisti, dal Palladio al Canaletto.
Con l’avvicinarsi della fine (1797) se la forza può obbligare gli uomini a piegarsi, la bellezza trova comunque, tra le crepe dell’oppressione, il modo di sbocciare. E come la fenice che risorge dalle sue ceneri, in perpetua danza sull’abisso, pur straziata dal frullatore della storia, la grande tradizione veneta neoclassica, ancora una volta, trova la forza di esprimersi ai vertici più alti con Antonio Canova, il più grande rappresentante del Neoclassicismo figurativo mondiale.