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Antonio Juvarra – La “maschera” e l’ “affondo”

Creato il 09 gennaio 2014 da Gianguido Mussomeli @mozart200657

Ricevo e pubblico un altro scritto inedito del docente di canto Antonio Juvarra, del quale ho ospitato già diversi interventi. Come sempre, lo ringrazio per la preferenza accordata a questo sito nel rendere pubblici i suoi saggi di analisi e storia della didattica vocale. Il contributo contiene anche questa volta molti temi stimolanti ed estremamente ricchi di interesse. Buona lettura.

  Antonio Juvarra

   La ‘maschera’ e l’ ’affondo’: due falsi paleo-scientifici

Se volessimo fare un’analisi statistica dei metodi vocali più diffusi in questo nuovo millennio, scopriremmo che per il 90 % essi sono riproposizioni, varianti e riciclaggi di due famose ‘patacche’ pseudo-scientifiche, sviluppatesi nel secolo scorso: la ‘maschera’ e l’ ‘affondo’. E’ certo che, trattandosi di esasperazioni di segno opposto, il fattore che ha facilitato enormemente la loro diffusione è proprio la polarizzazione. In questo senso si può dire che entrambe queste tecniche sono il prodotto della scissione della originaria unità belcantistica in due elementi antitetici che mai potranno ritrovare la loro correlazione e fusione, proprio perché concepiti e trattati sul piano di quella meccanica muscolare ‘esterna’, che li ha generati.  La nascita e lo sviluppo di queste due opposte unilateralità ha prodotto come effetto secondario anche il luogo comune per cui la ‘maschera’ rappresenterebbe la tecnica vocale del repertorio a cavallo tra Settecento e Ottocento, mentre l’’affondo’ rappresenterebbe invece la tecnica vocale del repertorio a cavallo tra Ottocento e Novecento: niente di più falso sia dal punto di vista tecnico-vocale sia dal punto di vista storico-estetico, come prenderemo in esame più avanti.

Ma vediamo come tutto ebbe inizio, riportandoci al ‘day before’, cioè  a ciò che determinò storicamente questa scissione, scissione che dal punto di vista della metodologia vocale ha comportato una vera e propria schizofrenia. Prima di farlo, è bene precisare che, anche se entrambe queste tecniche hanno la loro radice in un’epoca antecedente, cioè nella seconda metà dell’Ottocento, il pieno sviluppo della tecnica della ‘maschera’ si colloca intorno agli anni 10 e 20 del Novecento, mentre quello della tecnica dell’affondo si colloca intorno agli anni 40 e 50.

Benché i nomi che le designano, ‘maschera’ e ‘affondo’, siano evocativi e simbolici, cioè più di carattere connotativo che denotativo, entrambe le tecniche portano iscritto chiaramente in sé il loro marchio d’origine, che è quello scientifico. O meglio, entrambe pongono al centro della loro attenzione la risonanza, che è un fenomeno acustico, ma quello che entrambe poi concretamente fanno è proporre (ingenuamente) qualcosa di radicalmente antiscientifico e antiacustico, ossia l’idea che il suono, che non è un oggetto ma un fenomeno di espansione di onde concentriche, possa essere ‘portato’ volontariamente in zone privilegiate del corpo, dove magicamente avverrebbe l’amplificazione della componente acustica preferita. Questa componente acustica è rappresentata dalla brillantezza/squillo per i fautori della ‘maschera’ (che la mettono in relazione appunto con la ‘maschera’) e dalla corposità/volume per i fautori dell’affondo (che la mettono in relazione con la ‘gola aperta’).

La denominazione ‘maschera’, che probabilmente è nata come una delle tante espressioni metaforiche e generiche, tipiche della didattica vocale (per indicare, in questo caso, la percezione del piano frontale dell’articolazione-sintonizzazione del suono),  ben presto assumerà una denotazione più precisa e specifica, venendo a indicare le zone anatomiche privilegiate dove avverrebbe la magica trasformazione del normale suono intonato in suono ‘impostato’ e ‘lirico’. Per altro, ironicamente, l’individuazione di queste aree anatomiche privilegiate rimarrà sempre molto imprecisa ed  ‘eclettica’, comprendendo, ad libitum, il palato duro, i seni nasali e paranasali, addirittura la fronte e punti vari del cranio…  Comune a tutte le varianti della ‘maschera’ è la fissazione di un ‘bersaglio balistico’ posto ‘avanti’ ( o addirittura ‘fuori’) e la correlativa fobia della ‘gola’, demonizzata come ‘cavità falsa’, da saltare assolutamente (non si sa in che modo) per arrivare all’agognata meta di salvezza del suono, rappresentato dal paradiso della ‘maschera’. Esiste anche una variante ‘nasale’ della maschera, che storicamente esplose come moda tecnico-vocale e didattica nei primi anni del Novecento e fu adottata e diffusa a Parigi dal tenore Jean de Reszke, che la apprese dal foniatra statunitense Holbrook Curtis, grazie a quale aveva risolto una sua grave crisi vocale. Non furono immuni dall’abbaglio della ‘maschera’ neppure grandi cantanti e didatti come Lilli Lehmann, la quale nel suo trattato propone una sua sofistica distinzione tra ‘suono nasale’ (in senso negativo) e ‘risonanza nasale’ (in senso positivo), che è del tutto campata per aria. In effetti già negli anni sessanta del Novecento quella stessa scienza che aveva creato il feticcio della maschera, ha provveduto a eliminarlo, rivelando una verità che era sempre stata chiarissima e conosciutissima dai belcantisti per lo meno fino alla nascita della didattica vocale cosiddetta ‘foniatrica’ (quindi fino a tutta la prima metà dell’Ottocento) e cioè: le cavità (nasali e/o paranasali) della ‘maschera’ NON sono cavità di risonanza e le uniche cavità di risonanza rimangono quelle della bocca e della gola, per cui tutti gli ingenui tentativi di ‘portare’ o ‘proiettare’ i suoni nella cavità di risonanza immaginaria della ‘maschera’ portano allo stesso risultato, che è: la voce spinta. Quel senso di ‘altezza del suono’ cui fanno riferimento molti cantanti di alto livello e da cui ingenuamente ed erroneamente gli scienziati del canto avevano ricavato le teorie delle cavità di risonanza della ‘maschera’, è una percezione prevalentemente ‘mentale’ e, come tale, è un effetto illusorio che è sì segno della corretta emissione, ma non deve essere interpretato alla lettera, meccanicisticamente.

Se leggiamo i grandi trattati del periodo belcantistico, primo tra tutti quello fondamentale e insuperato di Giambattista Mancini, rimaniamo stupefatti nello scoprire che in essi non esiste traccia né dei concetti tardo-ottocenteschi (e, ahimè, anche ‘moderni’) di suono da portare ‘avanti’ o da ‘proiettare’, di ‘maschera’, di ‘cavità alte’, né dei tabù della gola e del suono ‘ingolato’, né di fantomatiche posizioni fisse e statiche del suono, né di forme ‘ideali’ e prefissate della bocca, delle labbra, per non parlare di tanti altri erronei cliché meccanicistici e relativi tabù riguardanti la respirazione, che sono stati introdotti dalla didattica foniatrica nello stesso periodo storico e di cui il tabù della cosiddetta ‘respirazione alta’ è l’esempio più insigne.  Purtroppo e incredibilmente tutta questa paccottiglia pseudo-tecnica e pseudo-scientifica rappresenta ancora oggi la base della tecnica vocale che si suol definire ‘lirica’ o ‘operistica’ (e che più correttamente dovrebbe essere definita tecnica pseudo-lirica e pseudo-belcantistica). Paradossalmente ritroviamo in parte la stessa paccottiglia anche nel metodo dell‘affondo’, che pure è nato come sua antitesi, e basti pensare al fatto che la compensazione dell’oscuramento causato dall’enfatizzazione dell’apertura della gola viene attuata dai seguaci dell’affondo, ricercando un punto di risonanza palatale anteriore, che deriva direttamente dai metodi della ‘maschera’.

Per altro, di questa strana coincidenza in fondo non c’è da stupirsi e per un motivo molto semplice: ‘maschera’ e ‘affondo’, anche se non sembrerebbe, hanno una radice comune che ha un nome preciso: Manuel Garcia jr.  A lui dobbiamo sia la fondazione della didattica vocale foniatrica, col suo ‘laringocentrismo’ e il suo meccanicismo muscolare, sia la formulazione della teoria delle ‘due voci’, la voce chiara e la voce scura, da cui appunto trarranno origine rispettivamente la tecnica della ‘maschera’ e la tecnica dell’ ‘affondo’.  Con riferimento alla prima basti citare il seguente passo di Garcia, tratto dalla Memoria allegata al suo ‘Trattato completo dell’arte del canto’, che recita:  “La colonna sonora, per la direzione inclinata impressale dalla laringe, è avviata verso la parte ossea anteriore del palato e la voce, senza andare a colpire le fosse nasali, quasi spinta dal velo palatino, uscirà squillante e pura. La vocale ‘a’ e la vocale ‘e’ sono le modificazioni del colore chiaro, che imprimono all’organo questa conformazione.”

Ancora più evidente appare poi il rapporto tra la seconda (la voce scura) e l’affondo. Scrive infatti Garcia: “La faringe sarà come una volta allungata e il corpo sonoro allora avrà quindi una forma lunga, ricurva e molto ristretta. La colonna d’aria innalzandosi verticalmente andrà a battere contro l’arco palatino: il suono si produrrà rotondo, pieno e scuro. Le vocali ‘o’ chiusa, ‘u’ ed ‘e’ chiusa sono modificazioni del colore scuro che imprimono all’organo queste conformazioni. Nel colore oscuro il velo palatino si alza, la laringe si abbassa mentre la faringe si dilata. Questa dilatazione si rende percepibile soprattutto quando il cantante dà alla sua voce tutto il volume che può avere, anche cantando piano. Questa esorbitanza di volume non può effettuarsi che nelle condizioni del colore scuro.”

Questa appare già a tutti gli effetti come una perfetta prefigurazione dell’affondo e a questo punto la domanda che potremmo farci è: ma che cosa ha che fare tutto questa complicata impalcatura meccanicistica con la scuola di canto italiana storica, con la scienza acustica e con quella che oggi viene chiamata psicomotricità ? Evidentemente nulla, benché tutti, Garcia in primis, abbiano cercato di giustificare il loro insensato sovvertimento della metodologia vocale belcantistica, ricollegandosi (a parole) a Tosi e Mancini.

L’affondo nasce negli anni trenta del Novecento per dare risposta all’esigenza di trovare uno spazio di risonanza che dia rotondità al suono cantato.  A questo spazio di risonanza verranno dati i nomi di ‘gola aperta’, di ‘canna’ o di ‘colonna del fiato’ (o del suono). Si trattava in linea di principio di un’esigenza giusta: infatti il risultato delle tecniche vocali della maschera, con la loro ottusa assolutizzazione del piano frontale dello strumento vocale (che rappresenta UNA delle componenti del suono corretto, cioè la brillantezza) e la correlativa fobia della ‘gola’ e della dimensione ‘indietro’ del suono (che è invece altrettanto legittima, in quanto l’unica fonte della rotondità, purché a sua volta non assolutizzata, ma posta in relazione dinamica con la prima) è stato ed è tuttora quello di privare il suono della ‘terza dimensione geometrica’, rendendolo per definizione ‘piatto’ e ‘schiacciato’, per quanto brillante. Lo sbaglio dell’affondo consisterà nel pensare che questo spazio della rotondità del suono sia lo spazio creato dalla presenza nella voce di quella componente del suono che ha nome ‘corposità’.  Al contrario, secondo la tradizione tecnico-vocale italiana, la corposità può emergere legittimamente SOLO nel registro detto appunto ‘grave’ (o ‘di petto’) della voce, ma non nel registro centrale né tanto meno in quello acuto, dove occorre lasciare spazio alle altre due componenti acustiche del suono, la morbidezza e la brillantezza, variamente combinate a seconda dell’altezza e dell’effetto dinamico.  La predominanza della componente della corposità (cioè la sua presenza anche in zone della voce che non sia quella grave), corrisponde sempre a sensazioni di posizione bassa del suono (a livello della gola o del petto) ed è causa di ingrossamento e appesantimento artificiale del suono, cioè di distorsione acustica. La confusione concettuale derivante dall’incapacità di distinguere il ‘contenuto’ del suono dal ‘contenitore’ del suono (per cui si può dire che il suono ‘grande’, a differenza del suono ‘grosso’ dell’affondo, avrà un ‘contenitore’ grande, ma NON un ‘contenuto’ grande) e dalla tendenza a fare dell’appoggio respiratorio e dell’’appoggio risonanziale’ (che NON è in basso) una cosa sola (che sarebbe come abbassare al piano terra il piano nobile o l’attico di un edificio…), è bene espressa nell’unico testo scritto da un sostenitore dell’affondo, la cosiddetta ‘Indagine sulla tecnica di affondo’ di Delfo Menicucci, dove a pag. 39 si legge: “ I connotati distintivi del cantante che ‘affonda’ sono la tipica immobilità della laringe, la postura caratteristica che prevede un rientro ed un abbassamento pronunciato della mandibola, la collocazione dell’appoggio nell’area addominale e lombare. E’ proprio da questa spasmodica e puntigliosa ricerca del basso, intesa non solo come sede anatomica dell’apparato propulsore, ma anche come propensione ad esaltare le ‘corde’ (armonici) gravi della voce, che la scuola ha assunto il suo nome pittoresco.”

Se l’aspirazione dell’affondo è sempre stata quella di essere considerato un metodo scientifico nonché una sorta di modalità ‘turbo’ della tecnica vocale italiana, più precisamente l’unica in grado di generare la potenza vocale necessaria per interpretare il grande repertorio lirico a cavallo tra Ottocento e Novecento, si può dire che affermazioni come quelle di Menicucci, sopra riportate, sono, al contrario, la prova provata dell’assoluta estraneità della tecnica di affondo non solo alla scuola di canto italiana storica ma anche ai principi della fisiologia e dell’acustica. I caratteri costitutivi del canto all’italiana, infatti, così come sono documentati dagli scritti di una serie di grandi cantanti che vanno dal settecentesco Mancini al verdiano Delle Sedie fino ai più recenti Caruso, Tetrazzini, Pertile e Lauri Volpi), sono sempre stati, al contrario, la ‘mobilità acustica’, la ‘flessibilità’, la ‘naturalezza’ sia dell’articolazione (“si canta come si parla”) sia della respirazione, e la leggerezza unita alla potenza, come recita la famosa formula di Lauri Volpi  “suono sferico, calmo, leggero, potente” ( e NON cilindrico, spasmodico, corposo, pesante, come vorrebbero i teorici dell’affondo…)  Sintomatico del totale svisamento dei principi tecnici del vero canto all’italiana è anche la sostituzione, proposta da Menicucci, dell’espressione tradizionale “appoggio sul diaframma” (che è poi la versione ‘scientifica’ dell’originale e più significativo termine “appoggio sul fiato”) con l’espressione “appoggio CON la cintura addominale”.  Menicucci non capisce che “appoggiare” e pressare attivamente in basso non sono la stessa cosa, per cui il suo ‘appoggio’ ubbidisce alla stessa logica di chi ci imponesse, per poterci sedere su una sedia, di sostenere noi con le mani la sedia invece di lasciare che sia il pavimento a farlo oppure di schiacciarla attivamente. Questo è il risultato cui si arriva ingrossando, scurendo e affondando il suono, ossia aumentandone artificialmente la corposità con la scusa di trovare lo spazio di risonanza che gli dà rotondità. Ciò che sfugge sia a Menicucci sia a Fussi, autore della prefazione al libro, è che ‘gola larga’ e ‘cavità’ non sono affatto sinonimi di ‘corposità’ e che (soprattutto) corposità non equivale a potenza vocale, ma semmai a zavorra vocale. La cosiddetta ‘voce piena’, infatti, è solo un’illusione acustica creata dal bravo cantante, che sa come entrare in contatto con il nucleo atomico di energia che sta al centro dello ‘spazio vuoto’ (e non pieno) del canto all’italiana. In questo senso i trattatisti del belcanto sono chiarissimi.  Nel Settecento Mancini critica coloro che cantano “a gola piena” e con “voce pesante e affogata” (niente di nuovo sotto il sole…) e richiede dall’allievo un “perfetto e leggero impasto di voce”. Ma ancora più significativa è la testimonianza di cantanti come Caruso e Pertile, proprio perché, considerato il loro tipo di voce, essi non corrono il rischio di essere confutati dai fautori dell’affondo con l’obiezione (per altro infondata) secondo cui la tecnica vocale belcantistica settecentesca sarebbe nata in funzione di un repertorio più leggero e non sarebbe stata in grado di generare la stessa potenza vocale dell’affondo.  Sorprendentemente Caruso nel suo prezioso scritto di tecnica vocale (ovviamente non pubblicato in Italia…) ripropone punto per punto tutti le indicazioni della scuola belcantistica, dalla respirazione al sorriso alla scioltezza articolatoria alla naturalezza, e rappresenta quindi la migliore confutazione delle tesi degli affondisti, tanto più trattandosi di un cantante che ha impersonato i ruoli più drammatici dei capolavori del repertorio verista ed essendo stato chiamato dagli stessi autori di quelle opere a impersonarli, ancora prima che l’affondo si diffondesse. Questo di per sé è già sufficiente a confutare la teoria dell’affondo come tecnica vocale indispensabile per affrontare il repertorio verista. A puro titolo di esempio basterà citare in proposito la seguente affermazione di Caruso, che da sola basta a smentire tutte le indicazioni tecniche dell’affondo sopra indicate da Menicucci: “Se uno s’intende di canto, sa che si può aprire la gola perfettamente senza una vistosa apertura della bocca, semplicemente sfruttando la respirazione. Tranne che negli acuti la posizione della bocca è quella che si assume sorridendo.” Anche le indicazioni riguardanti la respirazione, contenute nello stesso testo di Caruso (‘The art of singing’), ripropongono la respirazione toracico-diaframmatica dei belcantisti (che NON è, come afferma Menicucci, la respirazione del sostegno verso l’alto dei fautori della ‘maschera’), smentendo in tal modo la teoria degli affondisti secondo cui per esaltare la voce in tutta la sua pienezza e potenza vocale sarebbe necessaria la respirazione puramente anzi “drasticamente” addominale.

La verità è che la concezione di Menicucci (che sembra condivisa anche da Fussi) delle cause della potenza vocale e della ‘voce piena’ così come la sua idea delle caratteristiche costitutive della tecnica belcantistica si basano su premesse totalmente errate. Come abbiamo visto, infatti, la loro equazione ‘tecnica belcantistica = tecnica della maschera e del sostegno respiratorio verso l’alto’ non ha niente a che fare con la vera tecnica belcantistica, qual è documentata dai trattati e dalle testimonianze dell’epoca. Ugualmente infondata è la schematizzazione rappresentata dalla contrapposizione tra una tecnica vocale belcantistica, basata sulla flessibilità e il virtuosismo di agilità, da una parte, e una tecnica della potenza e della pienezza vocale, rappresentata dall’affondo, dall’altra.  In realtà la tecnica vocale belcantistica (in altre parole il canto a risonanza libera della tradizione italiana) era ed è allo stesso tempo agile, flessibile E potente. Per altro, essendo il canto un fenomeno acustico e non meccanico o atletico, questa potenza è il risultato della capacità di sintonizzare perfettamente il suono e di entrare in contatto con l’energia dolce e impalpabile del canto, NON di una sorta di facchinaggio muscolare (il “torchio addominale” di Menicucci), spacciato per tecnica di canto.  La verità è che l’incapacità di sintonizzare perfettamente il suono, avendolo zavorrato in partenza, rende necessaria quella pesante compensazione muscolare respiratoria, che gli affondisti scambiano per ‘appoggio’, mentre in realtà è, appunto, solo ‘affondo’ (in tutti i sensi !) della voce. A questo punto il ricorso alla teoria dell’atletismo appare subito per quello che è: la foglia di fico ‘scientifica’, tirata fuori dal cassetto dai seguaci dell’affondo per coprire l’incapacità di far coesistere belcantisticamente i due opposti del vero canto: la leggerezza e la potenza del suono.

Sempre partendo da considerazioni di tipo acustico e non meccanico-muscolare (in sintonia con la vera realtà del canto e con i principi della vera scienza..) si capisce anche come non sia affatto possibile (ma neppure necessario !) quel compromesso, auspicato da Fussi nella prefazione al libro di Menicucci, tra tecnica ‘belcantistica’ e tecnica dell’affondo allo scopo di “rendere più completa e teatrabile la voce” (Fussi). Questo per due semplicissimi motivi: perché la vera tecnica belcantistica non ne ha bisogno, essendo già teatrale, e perché quella immaginata da Fussi e Menicucci cioè la tecnica della maschera (che NON è la tecnica belcantistica !),  basata com’è su uno squilibrio, non può essere corretta da un altro squilibrio (l’affondo), che in parte la comprende… In altre parole non si può trasformare l’acqua in vapore mescolando ghiaccio e acqua bollente, per il semplice motivo che l’acqua bollente scioglierà il ghiaccio e il ghiaccio impedirà all’acqua di evaporare… Analogamente non si può ristabilire un vero stato di salute naturale, continuando ad assumere contemporaneamente veleno e antidoto (ammesso che l’affondo possa essere considerato l’antidoto della maschera e non un diverso tipo di veleno…)  Tanto meno si potrà assumere un antidoto, se non è mai stato assunto un veleno, mentre sarebbe (ovviamente) del tutto insensato assumere un veleno, se si sta benissimo…  In effetti, a niente altro che a un veleno si può equiparare il suggerimento di Fussi di un’applicazione ‘parziale’ delle tecniche di affondo alla prima ottava della voce, allo scopo di arrotondare e irrobustire il suono, che ha senso come buttare sale in una pentola d’acqua, sperando che solo una parte dell’acqua diventi salata… Quel “cercare il suono in basso, intensificando il colore scuro del timbro e la sensazione di scavo, di profondità, di ‘canna’ e ‘polpa’ del suono” (Fussi), non è affatto un mezzo per “sfruttare al massimo il rinforzo armonico detto formante del cantante (2500-3200 Hz), che permette facilmente di superare il muro sonoro dell’orchestra”, come incredibilmente si afferma, ma è al contrario il modo più efficace per affossare la voce (non dimentichiamo che anche le tombe sono collocate in basso…) o, per usare la terminologia settecentesca, per “affogarla”.  Infatti nel canto la profondità deve essere sempre vista dall’alto e mai realizzata ‘affondando’ e/o scurendo o ‘rimpolpando’ il suono, pena la sua irrimediabile distorsione acustica e l’impossibilità di realizzare quel canto di alto livello, detto appunto, non a caso, ‘trascendentale’ (e non ‘infimo’ o ‘basso’…)

La confusione concettuale riguardante la tecnica belcantistica, la tecnica della ‘maschera’ e la tecnica dell’affondo ha causato un diffuso disorientamento, che ha coinvolto anche il ‘cantante di rappresentanza’ dell’affondo e cioè Mario Del Monaco. (Per quanto riguarda Corelli, ricordiamo che la sua presunta appartenenza alla tecnica dell’affondo è un falso pubblicitario fatto circolare dagli affondisti, essendo accertato che Corelli andò solo una o due volte a lezione da Melocchi, mentre andò per mesi interi a lezione da Lauri Volpi).

Si può dire che senza la cassa di risonanza rappresentata dalla carriera trionfale del tenore Mario Del Monaco, suo ‘testimonial’ per antonomasia, l’affondo sarebbe rimasto l’idea strampalata e sorpassata di un maestro di canto di provincia, tale Arturo Melocchi, che aveva pensato bene, da bravo apprendista stregone, di mescolare due ingredienti, allora già di moda nella didattica vocale, e che per la pericolosità della sua trovata era stato allontanato dal conservatorio di Pesaro niente di meno che da Umberto Giordano. Questi due ingredienti (entrambi prodotti foniatrici DOC) sono il meccanicismo laringeo (verniciato di finto antico alla Garcia) e l’atletismo più o meno ‘macho’ (di probabile stampo fascista), il tutto reso più fascinoso da un tocco esotico. Una bislacca circostanza (che la dice lunga sull’italianità del metodo) vuole infatti che Melocchi abbia appreso questa tecnica in Cina (sic) da un misterioso quanto bizzarro maestro di nome Hang (o Hong) e che poi gli abbia appiccicato sopra l’etichetta ‘made in Italy’, tirando in ballo il baritono ottocentesco Giraldoni e spacciandolo per un suo precursore. (Da questo punto di vista si può affermare en passant ironicamente che Melocchi abbia quindi anticipato i tempi, nel senso che oggi come allora succede che paccottiglia acquistata in Cina venga poi rivenduta in Italia come prodotto artigianale italiano DOC…)   Ma torniamo a Mario Del Monaco, da cui tutto, quasi a sua insaputa, ebbe origine. In che senso ? Solitamente la gente ha un’idea sbagliata, fatta circolare ovviamente dai fautori dell’affondo, che è questa: la voce eccezionalmente sonora e potente di Del Monaco sarebbe l’effetto diretto dell’applicazione di questa tecnica e di conseguenza la dimostrazione vivente della sua validità. Le cose non stanno così e a darne testimonianza diretta è lo stesso Del Monaco in persona, come possiamo sentire in un documento audio di eccezionale importanza, pubblicato su youtube e intitolato ‘Aronne Ceroni intervista Mario Del Monaco, prima parte’. In questo documento è lo stesso Del Monaco a informarci direttamente (e incredibilmente) che:

1)- la sua voce già a partire dall’adolescenza era naturalmente ed eccezionalmente potente, quindi ancora prima di studiare l’affondo con Melocchi ;

2)- “tutti a Pesaro dicevano che Melocchi rovinava le voci”, motivo per cui il padre di Del Monaco, al corrente di questo, gli aveva sempre vietato di studiare con lui;

3)- quando, nonostante il divieto paterno, Del Monaco si decise ad andare da Melocchi, il primo risultato fu che, usando i vocalizzi ‘fondi’ di Melocchi , “restava rauco per sette giorni, steccava anche per dire ‘buona sera’” e a metà romanza doveva fermarsi perché “non resisteva più”;

4)- per bilanciare la durezza e la violenza dell’affondo, Del Monaco prese a studiare contemporaneamente anche con un altro maestro, tale Morigi, a cui Del Monaco riconosce esplicitamente di essere più debitore che a Melocchi;

5)- “prima di lui nessun allievo di Melocchi  aveva mai cantato, compreso un certo Bocci, che è una vittima di Melocchi perché eseguiva tutto quello che lui gli diceva, mentre io ho sempre diffidato di Melocchi” (parole testuali di Del Monaco);

6)- Marcantoni, un fautore della tecnica della maschera, fu il successivo maestro di Del Monaco nonché il responsabile dei gravi problemi vocali insorti immediatamente dopo, problemi talmente gravi da  “impedirgli quasi di cantare”.

7)- Su pressioni della moglie, Del Monaco si convinse a tornare a studiare per altri sei mesi con Melocchi, che lo rimise in forma. Continuò poi a studiare da solo, tanto da poter affermare orgogliosamente: “Posso dire che sono arrivato al debutto per merito mio.”

Il senso conclusivo di questa vicenda emblematica di Del Monaco coincide esattamente con la tesi iniziale e la conferma: tra i due opposti in cui si era scissa la tecnica belcantistica, ossia la tecnica della ‘maschera’  (che dà brillantezza al suono ma a spese dello spazio e della rotondità) e la tecnica dell’affondo (che dà rotondità al suono, ma a spese della leggerezza), Del Monaco scelse, in mancanza di meglio, la seconda, che non gli ‘stringeva’ la voce come la prima. Che la sua fosse per altro una scelta di ripiego è testimoniato sia dall’intervista sopra citata, sia da altri indizi, come le affermazioni riportate in un altro interessante documento pubblicato su youtube e intitolato ‘Nella villa di Mario Del Monaco’, dove addirittura Del Monaco teorizza una sorta di schizofrenia vocale, sostenendo che mentre esercitandosi a casa con i vocalizzi occorre affondare la voce e “ottenere il massimo della tensione delle corde vocali”, poi cantando in teatro “bisogna fare tutto l’opposto: lasciare che la voce si espanda in alto, leggera, aerea..” , e conclude dicendo: “questo è il piccolo segreto, che ho adottato in tutta la mia carriera.”  Come dire: se non avessi utilizzato questo antidoto parziale all’affondo (che era quello che gli aveva trasmesso Morigi nelle sue lezioni di ‘riequilibrio’ del trauma dell’affondo) non avrei potuto continuare a cantare…

Ma è nelle parole successive dette da Del Monaco in questa intervista che sta la spiegazione del perché Del Monaco scelse l’affondo come male minore rispetto alla maschera. Dice Del Monaco: “quando sentivo che ero in crisi, allora facevo i vocalizzi affondando per riallenare i muscoli tensori delle corde vocali; poi quando smettevo di fare i vocalizzi e RIPOSAVO PER UNA SETTIMANA, allora la voce si alzava, ottenendo quel metallo e quello squillo della voce, che è il risultato che si ottiene soltanto affondando con i vocalizzi ben appoggiati.”

Ecco delinearsi qui in modo chiaro i termini del grande equivoco, da cui nacque sia l’affondo di Melocchi, sia l’affondo ‘addolcito’ di Mario Del Monaco. La tecnica belcantistica, che è quella che consente di creare quei suoni “alti, leggeri e aerei” cui aspirava Del Monaco, viene erroneamente associata alla tecnica tardo-ottocentesca della ‘maschera’, la quale non consente né l’appoggio (che conferisce potenza e nobiltà al suono), né la giusta apertura della gola (che gli conferisce rotondità).  L’appoggio respiratorio belcantistico (che non ha nulla a che fare con il ‘sostegno’ delle tecniche della maschera) viene erroneamente equiparato alla rozza manovra muscolare defecatoria dell’affondo, mentre lo spazio che fa ‘sbocciare’ la voce nella zona acuta (la “voce spiegata” dei belcantisti) viene erroneamente scambiato con lo spazio creato dalla corposità del suono nella zona grave della voce. Ecco perché Del Monaco si dibatté per tutta la vita in questo dilemma: affondare la voce, ma non riuscire a ‘volare’ (se non dopo una settimana di riposo vocale…) oppure ‘volare’ ma rimanendo ‘impiccato’, ‘campato per aria’ e ‘sradicato’ ?

Come abbiamo visto, quest’antinomia non era reale, essendo stata prodotta fittiziamente come conseguenza dell’ignoranza della vera struttura tecnico-vocale del belcanto. Questa ignoranza perdura oggi ed è fomentata sia dai fautori delle tecniche della ‘maschera’ e del suono ‘avanti’, sia dai fautori dell’affondo, cui appartengono, incredibilmente, anche dei foniatri.

Il discorso si riconduce così all’inizio di questo saggio e al suo titolo ‘La maschera e l’affondo: due falsi paleo-scientifici’. Falsi in riferimento a che cosa e perché paleo-scientifici ? Il riferimento è chiaramente ai principi tecnico-vocali del belcanto italiano, da cui le tecniche della maschera e dell’affondo hanno estrapolato e separato due elementi costitutivi, esasperandoli e deformandoli in senso muscolare-meccanicistico. La ‘scienza’ che sovrintende a questa operazione di amputazione è quella ottocentesca della  neonata foniatria artistica (di cui Garcia è stato il fondatore), con la sua ingenua e rudimentale utopia (che tuttora perdura) di un controllo muscolare diretto degli organi fonatori. Accade così che una qualsiasi indicazione belcantistica viene piegata da queste due ‘ideologie’ a indicare significati opposti. La massima ‘si canta come si parla’ né è un esempio emblematico. Originariamente essa significava innanzitutto rispettare la naturale ‘mobilità acustica’ di cui vive la voce (parlata e cantata), utilizzando l’articolazione parlata come principio motorio naturale e universale, che nel canto deve presiedere sia al cambio delle vocali, sia al cambio delle note. Se si segue questo principio, che è acustico e fisiologico, la voce sarà già ANCHE ‘avanti’, ma non sarà né ‘portata’ né solo ‘avanti’, come invece postulano i teorici della maschera, distruggendo così la naturale relazione dinamica del suono col polo opposto, rappresentato dallo spazio ‘pulsante’ della gola, che è naturalmente ‘indietro’.

Da parte loro i seguaci dell’affondo, ossessionati dalla grandezza e dal volume del suono, per realizzare questo loro obiettivo fanno anch’essi ricorso a mezzi ‘esterni’ e meccanici come abbassare direttamente la laringe, oscurare il suono, aprire attivamente e al massimo la gola, tutte manovre che di per sé riducono quegli armonici della voce, che la fanno ‘correre’ e la rendono udibile in ampi spazi. Il ‘si canta come si parla’ sarà allora  da essi utilizzato per compensare artificialmente l’intubamento del suono (prodotto con gli espedienti ‘tecnici’ prima indicati), trasformandolo in ‘declamato scultoreo’, cioè in ‘detonatore’ della voce, col risultato di aumentare la corposità-pesantezza del suono, distruggere il legato e irrigidire l’appoggio respiratorio. Da tutta questa serie di distorsioni acustiche a catena nascerà la necessità di compensare (ma non sanare !) lo squilibrio, degradando l’appoggio belcantistico a “torchio addominale” da facchino (Menicucci) allo scopo di “espellere il suono” (sic), che è il triste esiti antivocale e antimusicale di ogni canto concepito e realizzato come grottesca caricatura meccanicistica esterna, cioè come altro da sé, moderno e inquietante golem scientifico.



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