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Antonio Melillo: La solitudine è un giorno d’autunno

Da Narcyso

Antonio Melillo, DURATA DEL MEZZOGIORNO, Rocco Carabba editore 2011

melillo
Si é impastato di nero di matita da disegno questo libro, spuntato da un’idea di assenza lungamente coltivata e subita.
Si avverte un affanno della parola del tutto consacrata al demone meridionale, lontana dagli sperimentalismi “nobili” e vicina, piuttosto, al dire di un esistere che “arroventa a fuoco lento la selva umana”.
Questa tensione è tenuta nell’ambito di un “barocco funereo”, in stretto contatto con la tradizione delle forme – argomento a cui andrebbe dedicato un capitolo a parte – quindi altamente interessato ad azionare meccanismi di senso e di coinvolgimento.
E, in effetti, il libro si presenta con l’abito dello stupore dolente; una mesta e insistita meditazione sullo sfiorire della vita, sul dopo che diventa la vita dopo la separazione e il lutto.
Qui non leggiamo di una voce frammentata che si é arresa – l’arrendersi alla morte é giá un dato di fatto – ma una voce che imbastisce un petroso diario, quasi in una forma rivisitata della meditatio, in cui il pensiero, pascalianamente, abita la fragilitá e ne cerca dolorosamente l’essenza, malgrado le offesa del destino. Potrebbe portare, questo mio commento, all’idea di un libro asciutto ed essenziale, e invece siamo di fronte a un libro ricchissimo di meccanismi formali, abitato, appunto, da quella musa meridionale di cui dicevo prima e dalla presenza di una Natura attivissima, di uno stare mesto che non rinuncia a immettere nel ciclo delle cose che esistono, anche l’essere bruto, più forte e sfacciato della vita stessa.
Ché la vita crea e ricrea, attraverso un attivissimo fragore di parole.
Chi se ne é andata continua a vivere della sua non presenza perché, malgrado si chieda alle parole di vivere l’attimo, e all’anima di non preservare il ricordo nemmeno della luce del giorno appena passato, questo non avviene, non puó avvenire.
Lo strazio di una presenza costante è sottolineato da un continuo ritornare delle cose – le foglie nuove al posto di quelle secche ma anche, nel significato di una consapevolezza metapoetica, delle forme della tradizione letteraria che ritornano e dialogano -
Cosí queste poesie coabitano con le presenze dell’esistere, e fra tutte lo spettacolo dell’infanzia osservata dai balconi e dalle ringhiere da madri votate alle faccende quotidiane mentre il poeta mantiene colloqui con lacerti di presenze, sapendo che si tratta di piccole lame per rinverdire il dolore e basta.
Perchè la natura è tautologica al pari di un gomitolo e tutto l’accadere é giá previsto, come il ripetersi delle foglie.
Che cosa puó, allora, la parola, la poesia? Niente. Solo dialogare ed essere; ricamarsi un bel vestito di luccicanza e fango, mostrarlo davanti alla sorte e urlare ai quattro venti: io sapevo, io c’ero, “consapevole che chi ama, prova dolore senza pari”.

Sebastiano Aglieco

un’altra recensione qui

*
ELETTI SENZA FINE

Rimanere ha senso, ritornando,
spiati dalla speranza, dove
si riparte? Affrettati a non morire
e cercare vicino chi è lontano,
firmare il cielo con il proprio sguardo.

Snaturati come una foglia rasa
dalla luce di primavera,
perchè l’avaccio è soltanto abitudine,
uccelli ormai migratori senz’ali,
come costretti in un luogo nel tempo

sotto un insistente sole di terra
continuo in limine al tramonto,
ma febbrile riverbero dell’alba;
la vita non leggera, il vento un soffio
distante a scuotere di nuovo i platani.

Viaggiare è solo un restare nel mondo,
una speranza di sperare,
vano è averlo appreso con la morte,
se pure i morti debbono tenere
la pazienza del ballo insieme ai vivi,

in questi spazi dove si è eletti senza fine.

***

MEMORIA E MARMO

Come la sofferenza sulla terra
così la gioia è stata promessa in cielo,
eppure la notte ancora a seguire
dal letto insonne il lontanarsi

di tacchi sull’asfalto; la ragione
del male che dura dietro la schiena
è la memoria senza picchi, è l’acqua
tornata piana dopo il transito

del battello, è il via vai di auto all’alba
verso la speranza; dure le zolle
nel camposanto se gli occhi dei marmi
serbano l’aspetto da vivi

e la stessa attesa, se le parole,
ora preghiere, anche loro ricordano,
mentre ogni movimento è sospensione.

***

CONFUSIONE

Il passo tra le mura delle case,
fissare dai vetri girare l’angolo
un vecchio: poco d’altro e nulla più;
eppure qui si dà forma al mistero,

tra i confini precisi e scoperti uno
dopo l’altro il buio da rischiarare,
l’attesa sulla porta che qualcuno
distrugga la nebbia delle afflizioni.

Ma il mare spicca come acquerugiola
se lo sguardo ricerca le tue sponde
e inseguire la speranza è flagello.

La confusa lontananza rimane
sempre sullo sfondo dell’orizzonte
ad impedire ora di essere dialogo,

come si potrà allora essere canto?
Eppure mentre si dice, si tenta …

***

SENZA CHE MANCHI

Ecco l’alba e lasci scorgere in ordine
la natura, come se non avesse
bisogno di un conforto che al crepuscolo
si può dare soltanto con i fuochi

fatui di un firmamento cittadino:
tentare di bruciare la distanza,
pietà di te, compassione di noi:
se anche tu le parole le ricordi

con rumori aspri, il vento ci subissa,
scuote i viali trafilati, traduce
il lamento dei gabbiani, divelle

i battenti non tramando nulla
di nuovo oltre i brani di esistenza
e un dolore vuotato che si vive

senza che manchi.

***

Senso di grazia, da quale visione
trarne, se la donna non basta, contro
la tragedia e un mare di rame? Attendere
ancora dal solito vento un altro

tempo che rievochi oltre lo scotere
di olmi che spezzi il filo del paesaggio
perchè i nastri di bagliori si squarcino
come aquiloni in un celeste scosso

ma in mezzo a salici e lagrime l’afa
invernale rifà sempre gli stessi
rombi di trombe arrugginite e scaglia

guizzi anonimi da una nuvolaglia
brunita per nutrire quel che è terra
e memoria …

***

Un’altra alba travaglia la natura,
rameggia il mare che dura la terra
e la cognizione di vivere
la morte: il peccato ci ha fatto uomini

e l’angoscia rende speranza;
che tu possa essere solo di carne
è intollerabile, ma in quali mani
abbandonare il cuore che a rilento

muore e rimane? Nessun nugolo
di foglie ruscella a covrire
la melma di ricordi sul terreno;

il cammino è sospeso, giunti
con speranza fino sul limine
del mare, morti e mal vivi,

figli diseredati, frusti
dal sole, inghiottiti dal vento,
cui la sofferenza a nessun male rimedia,

sperando ancora di aprire una porta
dai cardini non logorati
e con un’altra soglia su cui non

ci sia un cane smagrito.

***

Sebbene il cielo ha il difetto
di questo mondo: lento, noia e fango,
grava con una speranza che sbatte
contro una lucerna come una falena,
con le lagrime inaridite
d’un bimbo appena nato, con l’odore
che lega gli spaghi del cuore;
orme che non colmano la distanza,
ma pestano se stesse, così secco
è il cedro del Libano, eppure la pioggia
lo nutre; inutile è pure la strage
mondana, la morte è da sempre
un sacrificio non volto verso il cielo
e darsi ad essa è vano quanto pregare
se i sonagli del vento non silenziano
e la luce degli occhi si nasconde;
e allora in quali mani rilasciare
i nostri cuori che muoiono e restano?


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