Magazine Cinema
Italia, Francia, 1961
116 minuti
Con La Notte, il secondo segmento della cosiddetta "trilogia dell'incomunicabilità", Michelangelo Antonioni riprende, ed amplifica la sua poetica sul disagio esistenziale e l'alienazione dell'uomo moderno in una società conformista che tutto assimila ed annienta: sentimenti, aspirazioni, certezze, le vite stesse. Il maestro ferrarese procede metodologicamente con il suo linguaggio cinematografico; innovativo, minimalista e minuziosamente architettonico (vedasi la metropoli urbana, con i suoi moderni caseggiati sempre incombenti, artefici della miniaturizzazione dell'uomo e del suo vagare, astratto, tra di essi e quel loro "gelido silenzio", già anticipatore del finale, forse, più memorabile di tutta la filmografia antonioniana: L'Eclisse), anche in quel geometrico posizionamento dei corpi, oltrechè illuministico per futuri cineasti e correnti. Un linguaggio che in questo film si fa oltremodo più cupo, come la notte del titolo, svelandoci le ventiquattrore di una coppia in chiara crisi coniugale dove solo all'alba di quel giorno dopo, nel parco della lussuosa villa di un industriale, con i prati ancora bagnati dalla pioggia scesa durante la notte (il lavaggio delle coscienze), potrà aprirsi sinceramente alle reciproche confessioni. Sentimenti inespressi, celati per troppo tempo sotto il velo dell'apatia, che esplodono in un'impulsiva ricerca dei corpi e in una tentata e sofferta ricostruzione della passione di allora, dell'amore, della vita stessa. E' un film, La Notte (come può esserlo qualsiasi, di Antonioni), per il quale ogni parola in più, spesa nel ricostruire in maniera tradizionale la sua linea sinottica, comporterebbe ad un affievolimento dell'opera, e della stessa poetica di Antonioni, sminuendola, perchè ogni suo singolo fotogramma, ogni dettagliato momento vanno cesellati, essendo meritevoli di una singola riflessione. Ecco dunque, che questo breve memorandum sull'opera in questione vale più che altro come un eco, come lo varrà, in futuro, una necessaria esplorazione estetica di quegli estatici dieci minuti finali di eclissiana memoria, dove la rarefazione della messa in scena e la massima edificazione di quell'incomunicabilità antonioniana che si estende ad "assenza universale", porteranno inevitabilmente ad uno dei silenzi più agghiaccianti mai visti sullo schermo. Ed è proprio riferendosi a questo silenzio imminente, generato dall'inutile e concitato eccesso di "rumore" della civiltà industrializzata, che piuttosto di concludere su La Notte, con la già nota frase che udiamo nel finale (la lettera che Jeanne Moreau legge a un sconcertato e immemore, Marcello Mastroianni), è senz'altro più consono farlo ricordando la voce di Monica Vitti in quella "poetica registrazione persa" che Mastroianni, alla fine, chiede di farle riascoltare...
- Dal salone oggi venivano i dialoghi di un film trasmesso alla televisione: "se fossi in te, Jim, non lo farei."
Dopo questa frase, c'è stato il guaito di un cane; lungo, sincero, perfetto nella sua parabola che si chiudeva nell'aria come, in un grande dolore.
Poi mi parve di sentire un aereo, invece era il mio silenzio, e io ne ero molto contenta.
Il parco è pieno di silenzio fatto di rumori.
Se appoggi un orecchio contro la corteccia di un albero e rimani così per un pò, alla fine senti un rumore.
Forse dipende da noi, ma io preferisco pensare che sia altro.
In quel silenzio ci sono stati dei colpi strani che disturbavano il paesaggio sonoro intorno a me.
Io non volevo dirlo, ho chiuso la finestra ma quelli continuavano, mi sembrava di impazzire.
Io non vorrei udire suoni inutili, vorrei poterli scegliere durante la giornata, così le voci, le parole.
Quante parole non vorrei ascoltare, ma non puoi sottrarti, non puoi fare altro che subirle, come subisci le onde del mare quando ti distendi a fare il morto.
- Me lo fai risentire? -
... Il silenzio.
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