Quando l’antropologia come sistema di conoscenza e prassi di ricerca (disciplina) prova ad entrare nello spazio pubblico delle società contemporanee si trova piuttosto a disagio. Come ogni disciplina che si rispetti incoraggia nei suoi discepoli alcune disposizioni mentali, abitudini percettive, gerarchie di valori specifici che vanno a formare quella forma mentis attraverso la quale si dà rappresentazione al mondo. Attualmente l’antropologia è ancora una disciplina profondamente accademica, dedita cioè alla costruzione di una conoscenza autoreferenziale attorno ai propri oggetti di ricerca, senza curarsi del modo in cui questa conoscenza prodotta possa in qualche modo essere utile per migliorare le vite concrete e reali delle persone. Non c’è nulla si strano in questo: come ben sappiamo ogni conoscenza è contestuale, cioè dipende dall’ambiente materiale e ideale all’interno della quale si produce e riproduce, e sarebbe inutile pretendere altrimenti: l’antropologia prodotta in accademia può solamente essere tale, cioè accademica.
Produrre un’altra antropologia significa svilupparla in un contesto altro rispetto all’accademia, ossia un contesto pubblico, dove i paradigmi (le domande che ci facciamo, le risposte che ci diamo, i metodi che usiamo, le critiche che formuliamo) seguano sistemi di pensiero diversi da quelli accademici: può essere importante, ad esempio, che l’antropologia pubblica si occupi di questioni che sono ritenute urgenti e importanti dall’opinione pubblica piuttosto che dalla comunità degli antropologi; può essere importante che i lavori compiuti mostrino efficacia concreta nel raggiungere gli (o almeno avvicinarsi agli) obiettivi prefissati e non necessariamente debbano prendere forma scritta; può essere importante esprimersi in modo da essere compresi, almeno all’80%, da tutti gli interlocutori, piuttosto che produrre il tipico gergo inteso solo dai pari; può essere importante utilizzare tutta la conoscenza a disposizione per raggiungere i propri scopi operativi, senza preoccuparsi di contaminarsi con altre discipline, ma anzi vedendolo come un plus identitario, anzichè come un limite; può essere importante saper delineare scenari partendo da pochi dati lavorando con alti gradi di incertezza, fare della variabilità e dell’incertezza il proprio punto di forza contro le facili e granitiche ortodossie, ampliare il campo di analisi in maniera inclusiva anche a rischio di disorientarsi, perchè dal successivo riorientamento nasceranno ipotesi e prospettive nuove e originali.
Mi viene da dire che se il paradigma dell’antropologia accademica è quello della conoscenza razionale ideale, il paradigma dell’antropologia applicata è quello della policy costruttiva. Policy è un termine inglese che non è facilmente traducibile in italiano per i profondi e molteplici significati che racchiude. Può essere tradotto come “piano di condotta”, “strategia per raggiungere un obiettivo”, “politica gestionale”: è quell’insieme di valutazioni, pensieri, previsioni, azioni che formano un processo sociale complesso volto al raggiungimento di un fine, di un risultato ritenuto desiderabile. L’antropologia applicata trova nella policy il proprio contesto identitario di origine e di sviluppo.
Tutte le domande che si possono formulare all’interno dell’antropologia applicata (e in generale delle scienze sociali applicate) hanno a che vedere con prospettive di policy: quali sono i modi migliori per elaborare un piano di intervento all’interno di una tale comunità umana per raggiungere determinati obiettivi? Quali strategie è più opportuno seguire per generare e sostenere determinati tipi di cambamenti? Quali effetti concreti producono delle precise scelte gestionali? Come elaborare policy efficaci tenendo conto dei differenti assetti valoriali e culturali delle persone alle quali verranno applicate? Come realizzare analisi esplorative e ricerche pilota per verificare, su piccola scale, gli impatti di policy che poi agiranno su ampia scala? Queste sono tipiche domande che l’antropologo applicato si pone giornalmente, e che non trovano nessuna corrispondenza nelle domande che l’antropologia accademica si pone. Idealmente, l’antropologia accademica dovrebbe fornire le conoscenze di base sul comportamento culturale umano per permettere agli antropologi applicati di saper prevedere l’esito dell’applicazione delle policy. Dico idealmente perchè ciò non si verifica mai, nemmeno per caso, ma anzi diversi studi dimostrano come una certa “precisione” teorica e metodologica sia il miglior predittore per il fallimento di progetti di antropologia applicata. Come dire che tanta e perfetta antropologia accademica può far diventare dei pessimi antropologi applicati. Rapporti cortesi ma a debita distanza, insomma, a ognuno il proprio ambito. (continua)