Sul finire del XX secolo scoppiò la prima guerra atomica. I cervelloni dell’epoca speravano si trattasse del solito banale scambio di bombe seguito, come di consueto, dalla riappacificazione dei belligeranti che, inorriditi dalle atrocità provocate, si sarebbero prodigati nello scambio di aiuti. Si sbagliavano. In soli dieci giorni, diecimila anni di civiltà umana furono ridotti in polvere.
Il fascino dei b-movie comincia da quell’atmosfera da discount della celluloide, quel “tutto a prezzi stracciati” che pervade le case produttrici indipendenti. Uno se le immagina in un sogno oppiaceo e cartonato di ciò che si pensa debba essere Hollywood: la Hollywood delle luci al neon, dei vicoletti rischiarati a sprazzi dalle insegne sgargianti e intermittenti dei locali notturni e degli strip bar. Non so come fosse la New World Pictures, la casa produttrice di questo film, nella realtà, ma è così che mi piace immaginarla, con al suo interno, superata la porta d’ingresso in metallo verniciato di rosso, piante ornamentali, segretaria occhialuta, bella presenza e gonna con lo spacco, e ovunque gigantografie di rane radioattive, di scream queen e di wrestler sorridenti in pose da figaccioni, prestati al mondo del cinema.
Il fascino di queste realtà parallele, così distanti dalla monotonia che siamo abituati a percepire e nella quale ci hanno scaraventato decenni di scadente fiction “all’italiana”, sta proprio nel prendersi sul serio. Si parte da un’idea, come per ogni film che si rispetti, ma sarebbe ingiusto definirla un’idea come tante altre. Il segreto, e il susseguente fascino tanto inimitabile quanto plastificato di queste piccole case delle meraviglie, è che un’idea folle come potrebbe apparire questa del “fare un film sulle rane mutanti” non solo è presa sul serio, ma ci si punta sopra anche un milione e mezzo di dollari (ben 7, secondo Wikipedia), praticamente quanto un “colossal” di casa nostra. E ricordatevi che siamo ancora nel 1988…
Conseguenza ancora più incredibile è che non solo la casa di produzione NON fallisce, come ci si potrebbe aspettare, ma incassa una dozzina di milioni. Abbastanza per decidere di sfornare ben 3 sequel! Niente male per dei ranocchi mutanti.
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NO Condoms
Apocalisse a Frogtown (”Hell comes to Frogtown”, 1988) è un film post-apocalittico. Appartentente a quel genere distopico che tanto mi piace. Una III Guerra mondiale combattuta a suon di armi nucleari ha devastato il pianeta e quasi annientato la razza umana. Oltre il 60% degli esseri umani di sesso maschile sono morti e i restanti sono irrimediabilmente sterili. Da questo stato di cose conseguono due condizioni fondamentali: a) il mondo è in mano alle donne; causa scatenante di vecchi rancori maschili e b) il seme fertile, e di conseguenza l’uomo che lo produce, è il bene più prezioso, il futuro. Assolutamente vietati, come indicano i cartelli, i preservativi.
A latere, le radiazioni hanno causato l’evoluzione verso lo stadio senziente delle rane. Non si conosce il perché proprio le rane. Le cose stanno così e basta. I simpatici anfibi sono divenuti dei grossi umanoidi stregati dal cattivo cinema e dalle cattive usanze dei vicini umani. Vivono ai margini della società, di solito in complessi industriali abbandonati e sopraffatti dall’inquinamento e dalla radioattività alla quale sembrano essere immuni.
L’apertura è la parola chiave di questa nuova specie che, negli ultimi tempi, oltre ad essere impegnata nell’estrazione di uranio, si dedica anche al rapimento di femmine di specie umana, ufficialmente per utilizzarle come attrazioni nei locali pubblici, secondo una politica cosmopolita mirante a incrementare il turismo.
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Frogtown
In un’intervista del 2001, Donald G. Jackson [il regista, ndr] dichiarò che mentre stava girando l’ultima scena di “Roller Blade” (1986), un’opera non imperdibile, notò una scritta fatta con la vernice spray su un muro di mattoni: FROGTOWN. Sul perché quella scritta fosse lì o sul suo significato non se ne seppe più nulla. L’importante è che il film era nato. Era già tutto nella testa di Donald.
Un’epopea a metà tra “Mad Max e “Il Pianeta delle Scimmie” solo che, al posto delle scimmie, ci sono le rane.
Questa faccenda del milione e mezzo di dollari di budget l’ha tirata in ballo sempre Donald, indicando proprio nella ingente disponibilità finanziaria, cosa che includeva, tra le altre, buone telecamere e una troupe più grande di quella usata da James Cameron per “Terminator”, uno dei maggiori ostacoli alla buona riuscita del film. In pratica Donald va dicendo che, essendo abituato alle produzioni caserecce e a risparmiare anche sull’aria respirata per fare un film, tutti questi soldi non sapeva proprio dove metterli. Il risultato finale, oberato com’era da tutti questi quattrini, non è che l’abbia soddisfatto poi tanto…
Roba da non crederci. È sempre la solita vecchia storia. Le case produttrici e il loro vizio di mettersi in mezzo. In una realtà, come dicevo sopra, parallela. Anche l’eccessiva prodigalità ostacola evidentemente la riuscita di un buon film. Una scusa che mi sento di consigliare a molti registi, quelli del grande cinema, così da non apparire banali nelle loro chiacchiere.
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Arriva Hell
Rowdy Roddy Piper, all’epoca star del wrestling, è Sam Hell, un avventuriero con un passato da criminale al quale viene concessa l’amnistia in virtù della sua ars amatoria e della sua straordinaria fertilità. Hell ora è di proprietà dalla MedTech, una corporazione gestita da un matriarcato. In cambio del perdono per tutti i crimini commessi, egli dovrà, sotto la supervisione di Spangle (Sandahl Bergman), un’infermiera/sorvegliante della MedTech, recarsi nelle terre selvagge per salvare quante più donne possibili dalla prigionia delle Rane e, dopo, ingravidarle tutte quante, secondo una rigida tabella di marcia.
Piper, paffuto e muscoloso, con una faccia da bambinone in campeggio, che non ha proprio l’aspetto del reduce di una guerra nucleare, se ne va in giro su un’ambulanza rosa munita di mitragliatrice M60, veicolo approntato al pronto intervento fertilizzante. Tutte, proprio tutte se lo vogliono fare, persino le rane, imbellettate [e arrapate] per l’occasione, ma molte altre [rane] gli saranno ostili e ci sarà da combattere. Lui, d’altro canto, se la tira un po’ pretendendo addirittura un po’ di atmosfera per i suoi incontri amorosi…
Gli giganteggia accanto Sandahl Bergman, Valeria in “Conan il Barbaro” di Milius. Una che, ricordiamo, oltre a essere ballerina di professione, veniva da un qualcosa chiamato “Airotica”, in “All that Jazz”, lontanissima dalle bellezze al silicone; una che il fisico se l’è scolpito col sudore e con la fatica. E che, confrontata con le starlette di gomma dei nostri giorni, le brucia lì dove sono.
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I Tre Serpenti
E se vi state chiedendo se siete adatti per la visione di questo film: ehm… no, probabilmente non lo siete.
C’è un messaggio latente, un sottotesto, un qualcosa che attribuisca un senso sia pur vago a quest’accozzaglia di battaglie-esplosioni-e-rane? Sì, c’è. È incredibile, ma c’è pure quello. Ma vi pare il caso di rovinare tutto questo trash con questo tipo di elucubrazioni?
Ammirate una fotografia superiore alla media, questo sì, che inquadra e impreziosisce paesaggi pseudo-desertici e un ottimo, davvero ottimo make-up delle rane giganti a cura di Steve Wang, il tipo che sta dietro a “Predator” di McTiernan, sì, avete capito bene.
Godetevi la bellezza sexy di Centinella (Cec Verrell), la soldatessa incaricata di proteggere il “bene prezioso” Sam Hell e quella graffiante di Sandahl Bergman, oltre alla sua danza sfrenata, da neo concubina post-apocalittica del Comandante Toty, il perfido capo delle rane, che la obbliga a ballare per “risvegliare” i suoi tre serpenti.
E ricordate, è estate, ed è di rane mutanti e b-movies che stiamo parlando.
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