di David Incamicia
Un minuto e venti secondi bastarono per uccidere circa 3000 persone, per ferirne quasi 9000 e per lasciarne senza tetto 300.000. La forza del terremoto del 23 novembre del 1980, che nell'epicentro raggiunse il nono/decimo grado della scala Mercalli, si abbatté su una vasta area tra Campania e Basilicata. A trent'anni di distanza sono ancora aperte le crepe e le ferite di quegli interminabili 80 secondi che hanno seminato morte e distruzione. Cifre che nascondono altrettante storie interrotte, lacerate, cambiate per sempre. I comuni iscritti nell'elenco dei danneggiati sono 280, i paesi rasi al suolo 36. Per molti protagonisti di quella triste vicenda, l'incubo è finito solo a distanza di molti anni. Alcuni stanno ancora oggi entrando per la prima volta nella nuova casa, abbandonando per sempre i vecchi e malandati containers che li avevano ospitati per decenni.
Dall’epoca dei fatti si stima che lo Stato abbia sborsato, mediante ventisette diversi provvedimenti legislativi, 32 miliardi e 362 milioni di euro. Il tutto per portare a casa risultati che appaiono, nella migliore delle ipotesi, discutibili. Ricostruzioni mai terminate, paesi fantasma e stabilimenti industriali fatiscenti, dichiarati falliti in poco tempo e realizzati grazie a finanziamenti pubblici a fondo perduto, così come voleva la legge sulla ricostruzione. Con la criminalità organizzata e una politica troppe volte corrotta e irresponsabile che tuttora continuano a lucrare sulle sofferenze.
Ma c'è chi da trent'anni non si è mai arreso alla logica dei prefabbricati. Gente che ogni mattina esercita la propria professione di artigiano o commerciante nei luoghi prossimi alla distruzione di allora. In borghi spettrali, ormai quasi del tutto disabitati, dove il tempo pare essersi fermato a quella sera maledetta, dove la natura ha preso il sopravvento su quel che rimane delle vecchie case. Come nella tristemente nota Conza, in provincia di Avellino. O come a Balvano, nella mia Lucania. Mete di quello che ha preso il nome di "turismo del dolore".
Il 23 novembre 1980 avevo otto anni. Ricordo che quella domenica d'autunno era stata insolitamente calda. Nel mio piccolo paese potentino di origine Arbëresh, Barile, tutti i contadini ne avevano approfittato per trascorrere una dura giornata di lavoro a raccogliere le olive. Anche io ero stato nei campi con mio nonno, divertendomi e rilassandomi come tutti i bambini quando hanno la possibilità di respirare aria pura, di correre nel verde, di pranzare sotto un albero a pane e salsiccia. Era una spensieratezza destinata ben presto, a distanza di qualche ora, a trasformarsi in terrore. Al ritorno dall'uliveto avevo cenato a casa dei nonni, di nuovo felice assieme alla mia sorellina perchè c'erano le castagne arrostite sulla brace del caminetto. In tv scorrevano le immagini del mitico "90° minuto" di Paolo Valenti. Poi con mia madre, al sesto mese di gravidanza, ci incamminammo verso casa. Una passeggiata lenta e tranquilla, scandita dal racconto delle ore precedenti. E dal desiderio di telefonare presto a mio padre che in quel periodo viveva a Torino per lavoro, per fargli il resoconto della giornata. Fino a quando, intorno alle 19.35, tutto sotto di noi iniziò a tremare. Il cielo si fece improvvisamente rosso fuoco. Nell'aria un intenso odore sulfureo. Poi il boato assordante, gli edifici che si chinavano fino a sfiorarsi. E il mio cuore e quello di mia sorella che battevano a mille all'ora. Fu un frastuono interminabile. Tante persone che correvano per strada gridando, ognuno senza una precisa destinazione. La confusione regnava sovrana. Mi torna alla mente la frase urlata da una ragazza spaventatissima: "La bomba, la bomba... E' scoppiata una bomba!". Quando in seguito tutto cominciò a farsi più chiaro, mia madre, sempre tenendoci stretti per mano e proteggendo nel suo grembo mio fratello, ci fece segno di riprendere il cammino. Ora il caos e le urla avevano lasciato il posto a un silenzio surreale. Calpestando pietre e calcinacci giungemmo finalmente davanti alla nostra abitazione, dove rimanemmo per diversi minuti come immobilizzati. Nessuno aveva il coraggio di entrare. Ma bisognava farlo. Per verificare quale fosse la situazione all'interno e per prendere le cose necessarie a trascorrere la notte all'addiaccio. La prima di molte altre notti vissute in macchina sul vasto piazzale della stazione ferroviaria, riscaldandoci con falò improvvisati e alimentandoci solo col latte fornito gratuitamente dal bar antistante. Per quasi due mesi non frequentai la scuola e anche il Natale quell'anno non fu veramente Natale. Pur se lo "festeggiai" accanto a mio padre che ci aveva prontamente raggiunti in treno, portandomi il regalo che più desideravo: il robot Goldrake telecomandato. Vederlo sbucare col suo faccione dall'ingresso della stazione fu come vedere Santa Claus, un'emozione fortissima che ancora mi porto dentro. Certo, nella mia zona, nell'area Nord della Basilicata, i danni alle persone e alle cose furono meno gravi che in altri territori della regione e della vicina Campania. Ma il panico di quel minuto e 20 secondi, e dei giorni successivi, è un'esperienza impossibile da dimenticare. E' proprio per questo che risulta assai difficile, se non impossibile, accettare oggi quanto ancora avviene proprio in Campania con l'emergenza spazzatura. In quella terra divenuta emblema di un Mezzogiorno dimesso, passivo, sfruttato ma per molti versi artefice del proprio stesso degrado civile. Divenuta l'onta, al pari di altre realtà meridionali, di un Paese altrettanto rassegnato al declino nelle narrazioni dei media, in Italia come all'estero, o nelle schizofreniche elucubrazioni di qualche alacre Ministro. E' per questo, altresì, che chi crede nei valori più autentici, in quei valori attinti pure da esperienze umane drammatiche come il sisma del 1980, ora si indigna nell'osservare come sempre più spesso il passato si riveli inutile al presente.