Titolo: Canne al vento
Autore: Grazia Deledda
Editore: Mondadori
Anno: edizione 2001
ISBN: 9788804487722
Formato: libro
Lingua: italiana
Numero pagine: 238
Prezzo: € 9,00
Trama: In un villaggio sardo, Galte, non lontano dalla foce del Cedrino, sulla costa tirrenica della Sardegna, vive la nobile famiglia Pintor: padre madre e quattro figlie. Il padre, Don Zame, rappresentato come rosso e violento come il diavolo, è un uomo superbo e orgoglioso, ma anche prepotente e soprattutto geloso dell’onore della famiglia e ne protegge il prestigio e la nobile reputazione nel paese. Le donne, dedite ai lavori domestici, restano a casa. A questa condizione femminile si ribella solo la figlia più piccola, Lia, la quale trasgredendo le regole imposte dal padre fugge sulla penisola per “prender parte alla festa della vita”. Approda a Civitavecchia. Qui si sposa, ha un figlio e muore. Don Zame sembra impazzire per lo scandalo – “Un’ombra di morte gravò sulla casa: mai nel paese era accaduto uno scandalo eguale; mai una fanciulla nobile e beneducata come Lia era fuggita così.”… (fonte Wikipedia).
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Il protagonista di questo racconto è Efix, un uomo laborioso e accorto, il quale s’interroga sull’avvenire, non mancando di confidare nell’aiuto di Dio. Efix sa che ciascuno deve adempiere al proprio dovere fino in fondo. Se un’inondazione improvvisa mette a repentaglio il podere, è bene rinforzare gli argini. Fatto ciò, per il resto è giusto sperare nell’aiuto della Provvidenza.
Efix si dimostra perplesso sulla utilità di riflettere sul passato, su ciò che è stato: a che pro se non lo si può cambiare? Il suo è un modo particolare di essere fatalista. Eppure il passato condiziona il presente, perché si rimane in attesa del conto che alla fine si dovrà saldare.
Già nel titolo è evidente il legame tra l’uomo e la natura, una natura che dopo il crepuscolo si risveglia con le sue creature, esseri misteriosi quali le panas, l’ammattadore, ma anche i nani, le janas. Quando giunge l’ora è bene ritirarsi, che non si incappi nel leggendario serpente cananèa, non giunga a tradimento una notizia infausta. Si ha il timore persino di lasciare incustodite le case di notte. Per allontanare spiriti insidiosi e presenze malefiche da una certa ora in poi, per tradizione, sulla soglia rimane acceso un tizzone.
Quando viene a trovarlo il nipote, Efix è distratto: l’orecchio è teso ad auscultare i rumori di fuori che non sai mai se siano fantasmi o tarli della memoria inquieta. Il presentimento di una grave notizia assume a poco a poco la forma di una misteriosa busta gialla.
Il giallo richiama la gelosia, la disgrazia, oltre a fantasmi che gli entrano in casa tutti insieme: il vecchio padrone, le sue figlie ancora da maritare, Lia che fugge e trova marito a Civitavecchia; il padrone che si fa più tiranno di quanto già non sia, più litigioso per le altrui fortune, annientato dal senso del disonore; il nipotino romano e le zie che gli mandano un regalo senza scrivere alla puerpera, colpevole di aver abbandonato l’isola per il continente, in cerca di fortuna.
Tutto molto sardo: la superbia dei Pintor appare in questa favola virtù di una razza che non è abituata a farsi mettere i piedi in testa, per costituzione più che per educazione.
Qual è stata la colpa di Lia Pintor? Una fanciulla bene educata, andata in sposa a un estraneo, per di più fuggitiva, colpe grandi in una terra dove — caso raro — la nobiltà del titolo si instilla profondamente nella carne e nell’anima. Non vi è modo di uscire o di entrare a piacimento in un genere di patriziato capace di eleggere un popolo intero.
Giacinto, il figlio di Lia, il nipote redivivo, non contento dell’impiego in dogana ottenuto in continente, al contrario, vuole trovare fortuna nell’isola.
“Lavorare?” domandano le zie, ma dove e in che modo, se il paesetto non dà risorse nemmeno a coloro che vi son nati? Sì, ma come respingerlo, rimpatriarlo, con che cuore rispedirlo indietro se la sua presenza già alberga — solo perché annunciata — nel castello in rovina?
Chissà se quella lettera gialla che in principio Efix teme in realtà non annunci il prossimo arrivo di Giacinto. Tutto cambia, muta all’improvviso, la minaccia si muta in bonaccia e fresca brezza. Le canne al vento, quelle sul ciglione, si sono rassicurate. Non segnalano più un pericolo incombente ma, nella notte incipiente, sussurrano la preghiera della terra che si addormenta.
Quando Giacinto sopraggiunge, aspettato e inatteso al contempo, cerca lavoro. «Buona cosa, ma bada», gli ricorda zia Noemi Pintor «che qui occorre accontentarsi».
La risposta di Giacinto è rapida: «Che mai si crede, che nelle città grandi si stia meglio che in quelle piccole? Se coloro che le abitano muoiono dalla voglia di riparare qui!»
Si parla di un lavoro al mulino, a Nùoro. Dopo appena due giorni non ne discute già più. Anzi: spende in giro senza contare, paga a tutti da bere. Intanto si innamora o fa di lui innamorare una ragazza del paese, la povera Grixenda, che spera. Poi c’è la storia di Roma, di soldi presi in custodia e perduti al gioco, di un capitano benefattore, della moglie di lui, di un biglietto per tornare sull’isola e rifarsi una vita.
Il fedele Efix parlerà alle zie, tenterà di mettere pace. La situazione è grave e seria insieme: per le spese pazze di quei giorni Giacinto ha fatto debiti, ha presentato cambiali falsificando la firma. C’è la prospettiva del carcere e, come se non bastasse, ha messo a rischio l’unica ricchezza delle zie, un podere che Efix mette a frutto da anni.
L’afflizione aguzza l’ingegno. Efix decide di andarsene. Sugli scalini del portone scuote i piedi per non portar via neppure un granello di polvere. Neanche la polvere gli appartiene. Che almeno si salvi Grixenda, colei che si è ammalata d’amore per quello sciagurato. Andrà a Nùoro, dove Giacinto si è rifugiato — e Dio voglia — lavora. Deve convincerlo a sposarla. Chissà, magari don Pedru, il parente ricco, sposerà Noemi Pintor risollevando le sorti della famiglia.
Si incammina così, un passo alla volta, uno sull’altro, verso Nùoro. Lo coglie un dolore cocente, ma con esso anche la segreta speranza di riuscire a contrastare il destino, deviando il suo corso. Non siamo forse noi stessi autori della sorte, se lo vogliamo, se decidiamo di compiere il nostro dovere, la cosa giusta?
No, risponde Efix, la sorte non si può fabbricare, solo un poco assecondare. Si possono al più rinforzare gli argini per proteggere un podere contro lo straripamento di un torrente in piena. Per il resto la sorte ci piega come canne al vento. Perché noi si è le canne e la sorte il vento.