Qualche giorno fa Livin Derevel ha posto un bel dilemma, alchimia tra le alchimie:
La cosa più difficile quando si scrive un romanzo/racconto/novella/poesia/qualunque cosa: il titolo.
Per sua natura, a ragione ma con un po’ di torto, viene messo da parte, ignorando che di un titolo c’è sempre bisogno, anche se provvisorio. Quando Umberto Eco abbozzava il primo romanzo, si riferiva a L’abbazia del delitto. Solo dopo è nato Il nome della rosa. Alessandro Manzoni ha fatto altrettanto con Fermo e Lucia, che abbiamo tenuto aperto sui banchi di scuola nella versione che conosciamo.
È talmente cruciale la cosa che se non si risolve presto e bene, la pagina è destinata a rimanere bianca. Perché il titolo è un’impronta, ti dà il LA per l’incipit. Non si può star senza, non si può rinviare a quando la poesia, il racconto il romanzo saranno ultimati. Significherebbe abitare un edificio senza fondamenta, prossimo a crollarti addosso.
Per la poesia è in apparenza più facile, ma solo perché il titolo è assorbito, spesso, dal primo verso. Meriggiare pallido assorto per esempio è un titolo grandioso.
Il titolo è un direttore d’orchestra, un compositore. La sua è una responsabilità non da poco. Cambiare titolo può voler dire, qualche volta, mutare tono se non l’intera partitura musicale.
Il titolo deve essere tale da identificare l’opera in modo irreversibile, affinché non vi siano ambiguità. Il signore degli Anelli, Ultimo viene il corvo, Mistero buffo, Il Maestro e Margherita sono unici, una carta d’identità. Ci parlano di Tolkien, di Italo Calvino, di Dario Fo, di Michail Bulgakov. Un libro intitolato Una vita già ci mette in difficoltà, perché ci vengono in mente due romanzi. Uno è quello di Guy de Maupassant, che avrò letto cinque o sei volte nell’arco di vent’anni. L’altro, mai letto, è di Italo Svevo. Che dire di Anima mundi? In primo luogo penso al romanzo di Susanna Tamaro, poi all’opera omonima di William Butler Yeats. Scopro ora che Adelphi ha pubblicato Anima mundi di Marco Ariani e Paolo Pampaloni, dedicato al pensiero di James Hillman (che non ho mai sentito nominare fino a oggi, confesso la mia ignoranza).
Un titolo potrebbe essere anche una battuta arguta, un gioco di parole, o la storpiatura di un altro, senza arrivare alla parodia spinta de Il signore dei Tranelli, la cui stessa copertina fa il verso all’originale.
Il titolo può constare di una sola parola, ma in questo caso deve essere non geniale, di più, per il suo carattere evocativo, totale. Penso a Minuetto, la bellissima canzone scritta da Califano e interpretata da Mia Martini. Penso a Cuore di De Amicis, la cui importanza, forse, soffoca il romanzo stesso.
Potrebbe essere il nome del protagonista. In questo caso occorre andar cauti, il titolo è neutro, in apparenza non dice nulla, è un invito a scoprire di chi si sta parlando, ma anche un modo per tenere lontano il lettore. Penso ai celebri Don Chisciotte, Anna Karenina, Robinson Crusoe, Moll Flanders, al più recente Baudolino (di Umberto Eco, mai letto). Oppure ai Tre moschettieri, al Conte di Montecristo, ai Fratelli Karamazov.
Ora veniamo ai consigli.
Di solito quando si inizia a scrivere vi è sempre, da qualche parte, un’idea germinale, una folgorazione. Se questa fosse assente, tanto vale rinunciare. Potrebbe essere un altro libro, un quadro, e, perché no, un brano musicale. Una volta ho scritto un racconto sotto l’impulso di una canzone di De André, Volta la carta . Il racconto si intitolava Madamadorè, da una strofa che mi piaceva molto. Oppure è capitato che una canzone, grazie alla sua atmosfera, sia stata in grado di sciogliere un intreccio che languiva: in tal caso ho omaggiato la cantautrice attribuendo al racconto il titolo del pezzo in questione. È il caso di un racconto che richiama velatamente un brano di Emma Shapplin, (Notte Etterna appunto).
Due, anzi tre consigli spassionati:
1. Che non vi venga in mente di ricorrere al “Senza titolo”, piuttosto abusato, come ciascuno può vedere da sé.
2. Evitare titoli troppo enigmatici, anche se qualcuno ha avuto fortuna. Faccio il caso di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie: oscuro più che altro a causa della traduzione (And Then There Were None nell’originale).
3. Non capiti mai che il titolo sia migliore del racconto, del romanzo, della poesia. Si tratta di cosa da evitare assolutamente. Ne va del proprio futuro (di scrittore, s’intende).
Per il resto valgono le parole di Virginia Woolf:
Cedi le redini a ogni impulso, fai tutti gli errori di stile, di grammatica, gusto, sintassi. Riversa in massa. Rovesciati. Lascia andare la rabbia, l’amore, la satira con tutte le parole che riesci a cogliere, costringere o creare, con qualsiasi metrica, prosa, poesia o borbottio che ti viene.
Imparerai, così, a scrivere.