Titolo: Shakespeare – L’invenzione dell’uomo
Autore: Harold Bloom
Traduzione di: R. Zuppet
Editore: BUR
Anno: 2003
ISBN: 9788817107983
Formato: libro
Lingua: italiana
Numero pagine: 575
Prezzo: € 11,00
Genere: saggistica letteraria, teatro
Contenuto: Analizzando le opere maggiori di Shakespeare, Bloom dimostra che il drammaturgo, più che semplici ruoli teatrali o personaggi, ha creato vere e proprie personalità. Dopo oltre 12 anni trascorsi a studiarlo e a insegnarlo, Bloom si arrende, ammirato, alla mente del “bardo” che, lungi dal “riprodurre la natura”, ha inventato l’uomo, i percorsi e i motivi della sua psiche, scendendo a profondità non ancora completamente spiegate e comprese, nemmeno da Freud. I personaggi shakespeariani sono più vivi della vita stessa, come il pubblico di allora e di oggi percepisce bene al di là di ogni velleitaria analisi critica o messinscena teatrale.
Titolo: Lezioni su Shakespeare
Autore: Hugh W. Auden
Traduzione di: G. Luciani
Editore: Adelphi
Anno: 2006
ISBN: 9788845921148
Formato: libro
Lingua: italiana
Numero pagine: 461
Prezzo: € 32,00
Genere: saggistica letteraria, teatro
Contenuto: Fra l’ottobre del 1946 e il maggio del 1947, con cadenza settimanale, Auden tenne alla New School for Social Research di New York un ciclo di lezioni dedicate al teatro e ai Sonetti di Shakespeare. Ma chi immagini austeri seminari per dottorandi in letteratura inglese è decisamente fuori strada: Auden si rivolgeva a un pubblico variegato ed entusiasta di non meno di cinquecento persone – tanto che era spesso costretto a “gridare a squarciagola” e pregava coloro che non riuscivano a sentirlo di non alzare la mano “perché sono anche miope”. Armato solo dell’edizione Kittredge delle opere di Shakespeare, della vastità prodigiosa della sua cultura e del suo impareggiabile humour – ma soprattutto della convinzione che la critica è conversazione improvvisata – Auden parlava a braccio, incantando tutti. Ma anche spiazzandoli con la sua temeraria spregiudicatezza di outsider: anziché affrontare le Allegre comari di Windsor fece ascoltare il Falstaff sostenendo che la pièce non aveva altri meriti se non quello di aver fornito spunto a Verdi. E giunto alla Bisbetica domata avvertì che non vi si sarebbe soffermato a lungo perché era un totale fallimento. Ma è forse nella lezione dedicata ad Antonio e Cleopatra, l’opera prediletta, che ci è dato di cogliere le ragioni dell’appassionata adesione del pubblico, giacché anche nelle vesti di critico Auden resta essenzialmente un poeta, capace di parlare a tutti, con la stessa miracolosa leggerezza che attribuiva a Shakespeare.
Credo sia da più di un anno che le riflessioni che ho tratto dalla lettura di questi due libri riposano sul quaderno. Un po’ perché desideravo approfondire alcuni aspetti, un po’ perché, strada facendo, ho cominciato a esaminare le rappresentazioni di alcune tragedie e commedie di Shakespeare. Su Scritty sono già apparsi due articoli, uno riguardava Molto rumore per nulla , l’altro Come vi piace (As you like it) , entrambi con la regia e l’interpretazione di Kenneth Branagh.
Per quanto riguarda le tragedie ho avuto sotto mano l’Amleto e il Re Lear interpretati nientemeno che da Laurence Olivier negli anni ’40.
In questi giorni ho ripreso in mano gli appunti raccolti nel corso della lettura dei libri di Harold Bloom e di Auden, utili per avere uno sguardo d’insieme.
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Al pari di Shakespeare non c’è autore teatrale, drammaturgo o persino attore che non sia continuamente citato, preso quale termine di paragone. Ciascuno di noi sa che Shakespeare ha scritto drammi come Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth. Ma chi era realmente costui? Per chi non ha dimestichezza con le sue opere, il libro di Harold Bloom e le lezioni di Auden sono un’ottima introduzione. Mettono ordine alle idee, alle reminiscenze scolastiche, a letture, rappresentazioni teatrali e parodie.
La tesi centrale del volume di Harold Bloom è questa: la vera letteratura si misura nella capacità di esprimere il tormento, in modo che il lettore lo viva su di sé, lo senta proprio. Il risultato è che ci si immedesima totalmente in Amleto, percependo il suo dubbio; ci si riconosce in Re Lear, vivendo la sua tragedia. Un personaggio letterario è riuscito tutte le volte che l’immedesimazione ha avuto luogo.
La forza dei drammi shakespeariani è tale che non è lo spettatore a entrare nel cuore dei personaggi, sono i personaggi stessi a leggere dentro lo spettatore:
Veniamo giudicati mentre tentiamo di giudicare.
Nel Riccardo III è evidentissimo lo stretto legame col pubblico (chissà se Carroll nel dar forma alla regina di Cuori aveva in mente questa scena):
Basta col pubblico, gli si mozzi la testa.
La letteratura assolve alla funzione creatrice dei sentimenti, giungendo a un paradosso. Solo Amleto è reale, tutto il resto è teatro, pubblico compreso. Shakespeare ha intravisto ben prima di Freud l’impronta dell’individualità, la sorgente dell’IO. In Amleto l’IO è un abisso profondo, il caos, è la consapevolezza dell’alternarsi di fato e di fortuna. L’Io per sua natura diventa sovrano del proprio destino, vive la tragedia conseguente alla scoperta cocente (in Re Lear) della propria mortalità:
In gran parte delle sue opere più belle lo scrittore non imitò la vita, bensì la creò.
Amleto è un teatro nel mondo, come la Divina Commedia, il Paradiso Perduto, Faust, Ulisse o Alla ricerca del tempo perduto.
Qualcosa di simile si scorge nel celebre romanzo di Somerset Maugham La diva Julia.
Passando alle Lezioni su Shakespeare di Auden, qui si afferma che il Re Lear non sia recitabile. La difficoltà risiederebbe nella struttura dei personaggi stessi, che a ben vedere è comune a tanti, se non a tutti. Paradossalmente nemmeno l’Amleto, né l’Otello sono recitabili. La ragione è tutta qui: difficilmente capiterà a qualcuno, nella vita reale, di incarnare a tempo pieno il carattere che contraddistingue Jago, Re Lear o Amleto. Nessuno li impersonerà perfettamente al cento per cento. Sarà evidente la distanza tra l’attore e Amleto, tra l’attore e Re Lear. È difficile da spiegare. Amleto, Re Lear, Otello e Macbeth sono caratteri privi di un volto. Il volto viene prestato loro di volta in volta, è sporadico, provvisorio. È la situazione a crearli, loro non fanno altro che comportarsi di conseguenza, succubi di un destino che può riguardare tutti.
Il difficile, in sostanza, è rappresentare gli archetipi che i personaggi esprimono, rendendo definitivi tratti di per sé contingenti e momentanei. Una persona qualunque non sarà mai solo Amleto, solo Otello, solo Macbeth. Perché Amleto, Otello e Macbeth esprimono la personificazione di un tratto, escludendo tutti gli altri. Con ciò viene meno la complessità psicologica, essendo costoro fatti di un ingrediente soltanto, di uno stato emozionale che si fa permanente, ininterrotto. Amleto non può uscire da Amleto. Otello non può un solo momento cessare di essere Otello. Macbeth non può che essere Macbeth tutto il tempo. L’anima è incollata alla maschera che ci si porta dietro come il destino, non trova dentro di sé antidoti alla tragedia che incombe. Questo fa dei personaggi shakespeariani figure archetipe, in apparenza remote, in realtà simulacri che ci osservano da vicino, che ci soppesano nel momento in cui li giudichiamo.
Nella nostra esistenza ce la vedremo spesso con la loro ombra: saremo Amleto, re Lear, Falstaff, Jago secondo le circostanze. Ciò è sufficiente per costruire un legame indissolubile tra noi e loro.
Re Lear, Macbeth e Otello, tra quelle ricordate, sono le figure più emblematiche del teatro di Shakespeare.
Il primo commette un errore di valutazione che sarà fatale. Scoprirà una verità crudele e indeclinabile, che il vero amore è quello che lega genitori e figli, e che la distruzione, la separazione, il dramma, sono il suo epilogo. L’amore non è mai un mezzo di salvezza, ma l’origine stessa di una tragedia totale, fatta di morti che sembrano non servire a niente, perché prive di significato:
Shakespeare spoglia l’amore – che vuol dire troppe cose – dei suoi valori presunti.
Macbeth, si potrebbe dire, è quello che vive nella “terra di mezzo”, tra la comunità della luce e quella delle tenebre. Privo di volontà, le sue azioni avventate lo conducono verso il nulla. È un uomo vuoto, a riempirlo sono allucinazioni e immaginazione, grazie alle quali costruisce trame inverosimili che, una volta realizzate, non reggono il confronto con la realtà. Dimostra piuttosto la sua capacità di fare del male, un male di per sé banale, ordinario. È nel giusto chi afferma che Macbeth e Lady Macbeth siano e cerchino di essere assassini senza tuttavia essere malvagi. Macbeth infatti soffre; la malvagità, come insegna Bulgakov ne il Maestro e Margherita, è un balsamo contro la sofferenza. I malvagi traggono piacere e soddisfazione in quello che fanno.
Nel dramma c’è un velo di fantasy, la sensazione della notte che abbia usurpato il giorno. A poco a poco diventa un vero racconto del terrore. C’è il timore dell’ignoto, di noi stessi e l’immedesimazione del pubblico che produce qualcosa di angoscioso. Un’angoscia e un terrore che diventa qualcosa di indifferenziato, travalica la scena coinvolgendo tutto il teatro, platea compresa, senza che vi sia uno schermo tra la storia e il pubblico. Solo Shakespeare giunge a tanto.
Considerando Otello, Auden chiarisce subito che Jago, al contrario di Macbeth, è padrone del proprio e dell’altrui destino. Assume addirittura le vesti del drammaturgo, perché mette in scena i propri piani, adattando la trama alle circostanze. Se Macbeth commette i crimini che conosciamo, Jago lascia che siano altri a sporcarsi le mani, facendo di essi gli strumenti della sua volontà. Auden precisa giustamente che appena gli accadesse di entrare in azione, di commettere in prima persona un delitto, sarebbe perduto.
Se in Re Lear il dramma deriva da un giudizio poco accorto (il sovrano si lascia incantare dalle figlie malvagie che dicono di amarlo, allontanando da sé l’amorevole Cordelia), in Otello la sentenza è più che accorta. A ragion veduta Otello preferisce Cassio a Jago.
Cassio è relativamente inesperto ma gentile e diplomatico, conosce i limiti della guerra. È l’uomo giusto. Jago al contrario non riesce a smettere di combattere, per questo gli viene preferito il primo. Jago non perdonerà Otello e mediterà vendetta. Nulla di diverso, si ricorda, accade nel Paradiso perduto di Milton: Dio retrocede Satana e Satana si ribella.
Concludendo, si possono evidenziare alcuni filoni, punti fermi che un poco riassumono il teatro di Shakespeare:
- L’amore non salva nessuno, nemmeno quello più genuino o puro del genitore nei confronti dei figli. L’eccessiva pretesa di amore conduce alla follia, come si vede nel Re Lear.
- Nemmeno l’assenza di passioni affettive, come accade in Amleto, è antidoto contro il destino. E se follia c’è in Amleto, è di una sostanza completamente diversa, perché vi è metodo, calcolo.
- Il male commesso presenta sempre il suo prezzo. Poco importa se si è agito per proprio tornaconto personale sporcandosi le mani (come Macbeth), o per malvagità, cioè perseguendo il male in sé e per sé (come Jago). Anche Jago, il più furbo, il più risoluto, alla fine è stato sconfitto. Chi avesse voglia di leggere il dramma vedrà che sarà Emilia, una donna, non Otello a metterlo nel sacco.
- Otello non è nelle condizioni di liberarsi di Jago. Amleto e Falstaff vi sarebbero riusciti, smascherarlo sarebbe stato uno scherzo, bastando una battuta che mettesse in luce quanto egli covava nell’ombra: l’unica difesa contro Jago è l’umorismo, ed è per questo che Shakespeare esclude qualsiasi forma di commedia in Otello. La cosa si fa evidente in Come vi piace, dove il dramma iniziale viene vanificato dall’ironia e un intero mondo viene salvato da un buffone.