1. Fausto Bertinotti ha di recente raccontato che Riccardo Lombardi dissuadeva dal rovistare nel passato di un uomo giunto ad occupare una carica pubblica di rilievo, perché «anche un giovanotto crapulone – diceva – può diventare un eccellente vescovo». L’aneddoto è saltato fuori nel corso della presentazione di uno dei tanti volumi – il quinto, se non ho perso il conto – che negli ultimi mesi sono arrivati in libreria per spiegarci chi sia Matteo Renzi. Il consiglio del «Linge» (così lo chiamava Gramsci) poteva andar bene per la Prima Repubblica, quando per arrivare anche soltanto a un mezzo strapuntino nel Comitato Centrale del Pci o nel Consiglio Nazionale della Dc era necessario il lungo apprendistato toccato a Parsifal per farsi degno di accostarsi al Santo Graal. Col declino delle tradizionali culture politiche italiane, col venir meno del principio che per costruirti un piccolo feudo elettorale in Lucania dovevi aver studiato almeno la Dottrina Sociale della Chiesa e per gestire la partita di giro tra le Coop e le Botteghe Oscure dovevi come minimo aver seguito le lezioni di Paolo Spriano alle Frattocchie, col sopravvento del cerone sulle rughe e della battuta spiritosa sull’arzigogolo fumoso, con la rivoluzione che ha segnato il sopravvento dei finti giovani sui finti vecchi, oggi basta una frangetta che faccia tenerezza al Dario, due o tre comparsate televisive per sostenere il Pierluigi e sei pronta a fare la vice del Matteo, al quale può bastare un brodo di coltura neocatecumenale, un babbo da impresario e una faccia da social network per esser pronto alla guida del governo. Non senza merito, sia chiaro, ma è che i tempi cambiano, e coi tempi, ciò che dà merito: ieri era il darsi interamente al proprio partito, oggi saperselo fare interamente proprio. In altri termini, se prima era il partito alla continua ricerca dei propri quadri dirigenti e di un leader che riuscisse ad incarnarne il portato etico-estetico, oggi chi ha la vocazione di farsi leader la persegue e la soddisfa nel riuscire a fare di un partito lo strumento del suo Io narrante, sicché in buona sostanza si può dire che egli è veramente leader quando il partito riesce a far propri i tratti di quel narrato. Detto in modo ancora più brutale: se ieri era il partito a dettare i precetti di un dover-essere che nel consenso cercava di porre le fondamenta di una comunità per quanto più gli era possibile (come più ampia pars possibile) e il leader era colui che li traduceva in un modello, oggi è l’essere del leader che si offre alla più ampia pars possibile di una comunità come modello cui ispirarsi per farsi partito di maggioranza. Più brutalmente ancora? Ieri il leader era la sintesi simbolica di un quid che oggi è sintesi simbolica del leader. Rovistare nel passato del «giovanotto», allora, può dare ampia spiegazione dell’operato del «vescovo»: il suo episcopato non esprime più lo spirito di un’ecclesia che si dà il segno del suo carisma, ma il modo in un’ecclesia cerca il suo spirito in quel segno, e il «vescovo» può dirsi «eccellente» solo quando questa ricerca trova soluzione. Se ieri, dunque, la psicogenesi di un leader era in tutto funzionale al ruolo che gli avrebbe affidato il partito, oggi è il suo profilo psicologico ad improntare il ruolo che egli dà al partito. Vien meno, in buona sostanza, quella «rigidità di contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse» che già nel 1921, «a una considerazione più attenta», per Sigmund Freud era solo apparente, giacché «la massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per essa non esiste l’inverosimile [e] pensa per immagini [sicché] chi desidera influenzarla non ha bisogno di argomentazioni»: basta che «le doti personali di costui corrispondano alle sue aspettative» (Massenpsychologie un Ich-Analyse). 2. Il limite più grosso di ogni tentativo fin qui fatto per capire chi sia Matteo Renzi andando a rovistare nel suo passato è stato quello di aneddotizzarne i tratti salienti per costruire un modello coincidente a una tipologia di personaggio: nulla mi pare sia stato seriamente fatto per un approccio di tipo psicologico alla personalità. Ritengo sia superfluo in questa sede rimandare a ciò che nel personaggio va perso della personalità, basti rammentare che il profilo psicologico di una persona dramatis è in tutto funzionale alla rappresentazione di un evento scenico, mentre il piano sul quale va in scena il drama personae trova teatro in tutt’altra dimensione (cfr. Maria Pia Arrigoni e Gian Luca Barbieri, Narrazione e psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore 1998 - in particolare, pagg. 101-115). Senza entrare nel merito di quanto questa semplificazione abbia sottratto alla possibilità di comprensione dei moventi primi che fanno dell’attore (in senso stretto) una maschera (in senso lato), mi limiterò a darne un esempio. Nel corso di un talk show andato in onda su La 7 lo scorso 27 febbraio una antropologa, la professoressa Amalia Signorelli ha detto: «Mi pare che il carattere predominante nel carattere di Renzi sia il suo tirocinio di boyscout», e ha spiegato che tutto l’armamentario di «vestiti, borracce, zaini, coltelli, cappelli speciali e tutto il resto» che quel corpo ritiene necessario «per convincersi che una gita su una collina alta non più di mille metri sia simile a una spedizione nella foresta dell’Amazzonia» rivela una forma di esaltazione che può sennatamente dirsi ridicola. Considerazioni da antropologo, appunto. Nulla che vada più in là del profilo psicologico che accomuna tutti i boyscout. In questo caso, viene meno l’analisi in un fattore come l’empowerment, che è basilare nella formazione dello scout. La notazione, peraltro acuta, perde così specifico nella psicogenesi del leader con Io ipertrofico ed esasperato bisogno di controllo delle attività dei gregari. Basterebbe un cenno ai lavori di Julien Rapaport e Marc Zimmerman o, per citare uno studio in italiano, il contributo essenziale di Gian Piero Quaglino (cfr. Scritti di formazione 1976-2006, vol. IV, Franco Angeli Editore 2007), accostando tali dati alle tracce autobiografiche disseminate nelle numerose interviste rilasciate negli ultimi anni. Per questo aspetto, come per altri, quella che maggiormente offre spunti di diagnosi è senza dubbio quella rilasciata a Michele Cucuzza e poi raccolta con altre in Sotto i 40 - Storie di giovani in un paese vecchio, Donzelli 2007 (pagg. 51-66): «Tra i diciassette e i vent’anni, l’età in cui vuoi dare un calcio al mondo e hai fiducia in te stesso forse in eccesso, ho capito quanto fosse importante [...] il cogliere la soddisfazione dell’avanzata passo dopo passo, più che il conseguimento della meta in sé». Il muoversi per muoversi, il fare per fare, per la mera gratificazione che se ne può trarre. E così per un altro capitolo del romanzo di formazione, che rivela un altro tratto nel processo di fissazione che, vedremo, è l’elemento psicopatologico di contesto: l’esaltazione nella decisione rapida, rivelata nella descrizione dell’esperienza di arbitro di calcio: «Fare l’arbitro significa che devi decidere. Lo devi fare in una frazione di secondo, senza possibilità di delegare ad altri. Devi avere grande autocontrollo, serenità e capacità di dialogo, ma quando hai deciso, hai deciso». In questo caso, come in quello precedente e in quelli che analizzeremo successivamente, non mette conto dare per attestate in Renzi le virtù dello scout e dell’arbitro di calcio per quelle che sono, ma per come sono descritte. Il passaggio dalla trama aneddotica alle tappe della psicogenesi si ha nel tradurre l’esperienza nel suo narrato, per procedere da questo a ciò che esso implica come costruzione dell’ideale dell’Io (qui inteso nel senso in cui Janine Chasseguet-Smirgell’ha posto in relazione alla «malattia dell’idealità» - cfr. Raffaello Cortina Editore 1991). [segue]
1. Fausto Bertinotti ha di recente raccontato che Riccardo Lombardi dissuadeva dal rovistare nel passato di un uomo giunto ad occupare una carica pubblica di rilievo, perché «anche un giovanotto crapulone – diceva – può diventare un eccellente vescovo». L’aneddoto è saltato fuori nel corso della presentazione di uno dei tanti volumi – il quinto, se non ho perso il conto – che negli ultimi mesi sono arrivati in libreria per spiegarci chi sia Matteo Renzi. Il consiglio del «Linge» (così lo chiamava Gramsci) poteva andar bene per la Prima Repubblica, quando per arrivare anche soltanto a un mezzo strapuntino nel Comitato Centrale del Pci o nel Consiglio Nazionale della Dc era necessario il lungo apprendistato toccato a Parsifal per farsi degno di accostarsi al Santo Graal. Col declino delle tradizionali culture politiche italiane, col venir meno del principio che per costruirti un piccolo feudo elettorale in Lucania dovevi aver studiato almeno la Dottrina Sociale della Chiesa e per gestire la partita di giro tra le Coop e le Botteghe Oscure dovevi come minimo aver seguito le lezioni di Paolo Spriano alle Frattocchie, col sopravvento del cerone sulle rughe e della battuta spiritosa sull’arzigogolo fumoso, con la rivoluzione che ha segnato il sopravvento dei finti giovani sui finti vecchi, oggi basta una frangetta che faccia tenerezza al Dario, due o tre comparsate televisive per sostenere il Pierluigi e sei pronta a fare la vice del Matteo, al quale può bastare un brodo di coltura neocatecumenale, un babbo da impresario e una faccia da social network per esser pronto alla guida del governo. Non senza merito, sia chiaro, ma è che i tempi cambiano, e coi tempi, ciò che dà merito: ieri era il darsi interamente al proprio partito, oggi saperselo fare interamente proprio. In altri termini, se prima era il partito alla continua ricerca dei propri quadri dirigenti e di un leader che riuscisse ad incarnarne il portato etico-estetico, oggi chi ha la vocazione di farsi leader la persegue e la soddisfa nel riuscire a fare di un partito lo strumento del suo Io narrante, sicché in buona sostanza si può dire che egli è veramente leader quando il partito riesce a far propri i tratti di quel narrato. Detto in modo ancora più brutale: se ieri era il partito a dettare i precetti di un dover-essere che nel consenso cercava di porre le fondamenta di una comunità per quanto più gli era possibile (come più ampia pars possibile) e il leader era colui che li traduceva in un modello, oggi è l’essere del leader che si offre alla più ampia pars possibile di una comunità come modello cui ispirarsi per farsi partito di maggioranza. Più brutalmente ancora? Ieri il leader era la sintesi simbolica di un quid che oggi è sintesi simbolica del leader. Rovistare nel passato del «giovanotto», allora, può dare ampia spiegazione dell’operato del «vescovo»: il suo episcopato non esprime più lo spirito di un’ecclesia che si dà il segno del suo carisma, ma il modo in un’ecclesia cerca il suo spirito in quel segno, e il «vescovo» può dirsi «eccellente» solo quando questa ricerca trova soluzione. Se ieri, dunque, la psicogenesi di un leader era in tutto funzionale al ruolo che gli avrebbe affidato il partito, oggi è il suo profilo psicologico ad improntare il ruolo che egli dà al partito. Vien meno, in buona sostanza, quella «rigidità di contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse» che già nel 1921, «a una considerazione più attenta», per Sigmund Freud era solo apparente, giacché «la massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per essa non esiste l’inverosimile [e] pensa per immagini [sicché] chi desidera influenzarla non ha bisogno di argomentazioni»: basta che «le doti personali di costui corrispondano alle sue aspettative» (Massenpsychologie un Ich-Analyse). 2. Il limite più grosso di ogni tentativo fin qui fatto per capire chi sia Matteo Renzi andando a rovistare nel suo passato è stato quello di aneddotizzarne i tratti salienti per costruire un modello coincidente a una tipologia di personaggio: nulla mi pare sia stato seriamente fatto per un approccio di tipo psicologico alla personalità. Ritengo sia superfluo in questa sede rimandare a ciò che nel personaggio va perso della personalità, basti rammentare che il profilo psicologico di una persona dramatis è in tutto funzionale alla rappresentazione di un evento scenico, mentre il piano sul quale va in scena il drama personae trova teatro in tutt’altra dimensione (cfr. Maria Pia Arrigoni e Gian Luca Barbieri, Narrazione e psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore 1998 - in particolare, pagg. 101-115). Senza entrare nel merito di quanto questa semplificazione abbia sottratto alla possibilità di comprensione dei moventi primi che fanno dell’attore (in senso stretto) una maschera (in senso lato), mi limiterò a darne un esempio. Nel corso di un talk show andato in onda su La 7 lo scorso 27 febbraio una antropologa, la professoressa Amalia Signorelli ha detto: «Mi pare che il carattere predominante nel carattere di Renzi sia il suo tirocinio di boyscout», e ha spiegato che tutto l’armamentario di «vestiti, borracce, zaini, coltelli, cappelli speciali e tutto il resto» che quel corpo ritiene necessario «per convincersi che una gita su una collina alta non più di mille metri sia simile a una spedizione nella foresta dell’Amazzonia» rivela una forma di esaltazione che può sennatamente dirsi ridicola. Considerazioni da antropologo, appunto. Nulla che vada più in là del profilo psicologico che accomuna tutti i boyscout. In questo caso, viene meno l’analisi in un fattore come l’empowerment, che è basilare nella formazione dello scout. La notazione, peraltro acuta, perde così specifico nella psicogenesi del leader con Io ipertrofico ed esasperato bisogno di controllo delle attività dei gregari. Basterebbe un cenno ai lavori di Julien Rapaport e Marc Zimmerman o, per citare uno studio in italiano, il contributo essenziale di Gian Piero Quaglino (cfr. Scritti di formazione 1976-2006, vol. IV, Franco Angeli Editore 2007), accostando tali dati alle tracce autobiografiche disseminate nelle numerose interviste rilasciate negli ultimi anni. Per questo aspetto, come per altri, quella che maggiormente offre spunti di diagnosi è senza dubbio quella rilasciata a Michele Cucuzza e poi raccolta con altre in Sotto i 40 - Storie di giovani in un paese vecchio, Donzelli 2007 (pagg. 51-66): «Tra i diciassette e i vent’anni, l’età in cui vuoi dare un calcio al mondo e hai fiducia in te stesso forse in eccesso, ho capito quanto fosse importante [...] il cogliere la soddisfazione dell’avanzata passo dopo passo, più che il conseguimento della meta in sé». Il muoversi per muoversi, il fare per fare, per la mera gratificazione che se ne può trarre. E così per un altro capitolo del romanzo di formazione, che rivela un altro tratto nel processo di fissazione che, vedremo, è l’elemento psicopatologico di contesto: l’esaltazione nella decisione rapida, rivelata nella descrizione dell’esperienza di arbitro di calcio: «Fare l’arbitro significa che devi decidere. Lo devi fare in una frazione di secondo, senza possibilità di delegare ad altri. Devi avere grande autocontrollo, serenità e capacità di dialogo, ma quando hai deciso, hai deciso». In questo caso, come in quello precedente e in quelli che analizzeremo successivamente, non mette conto dare per attestate in Renzi le virtù dello scout e dell’arbitro di calcio per quelle che sono, ma per come sono descritte. Il passaggio dalla trama aneddotica alle tappe della psicogenesi si ha nel tradurre l’esperienza nel suo narrato, per procedere da questo a ciò che esso implica come costruzione dell’ideale dell’Io (qui inteso nel senso in cui Janine Chasseguet-Smirgell’ha posto in relazione alla «malattia dell’idealità» - cfr. Raffaello Cortina Editore 1991). [segue]
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