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Un periodo serio, fin troppo serio, serbatoio di slogan giovanili duri a morire e campo minato in cui, nell'arco di una stagione, sono di colpo esplose tutte le rivendicazioni e le inquietudini covate nel decennio precedente, preludio alla spensierata febbre da sabato sera degli anni '80. É il '68, che ha modificato per sempre il significato delle espressioni essere giovani ed essere di sinistra. Un lasso di tempo diventato occasione di costruzione identitaria imprescindibile per chi, alla soglia del liceo, è costretto volente o nolente a farne i conti. l'Après Mai, il “dopo maggio”, ritratto dal regista francese Olivier Assayer, uno che quelle rivendicazioni le ha gridate, conferma l'infatuazione del cinema d'oltralpe per le ambientazioni sessantottine, che tanto hanno significato per coloro che le han vissute - come mostrano i personaggi del film, che nel giro di qualche anno prenderanno decisioni capitali - ma che assai poco hanno sconquassato la storia politica. A ben vedere, i maggiori successi “rivoluzionari” dell'epoca, si registrano nel settore dell'emancipazione sessuale, grazie alla lotta delle femministe spesso bollate dai compagni uomini senza mezzi termini come “lesbiche”, nel campo dei costumi e della cultura. Al volgere del '68, arte e politica sembrano arrivare ai ferri corti. La dimensione estetica viene trattata alla stregua di un vezzo per intellettuali, che distrae dal messaggio politico e anzi ne intacca la purezza rivoluzionaria. Un dissidio che il protagonista di Après Mai, Gilles (Clement Metayer), vive in quanto essere complesso, che concepisce la battaglia per il 'bello' e il 'giusto' come un tutt'uno inscindibile. Pittore per studio, regista per vocazione, egli è un cinefilo attento e un lettore vorace, disubbidiente all'interpretazione ortodossa che del maoismo fanno i compagni e interessato invece ai saggi che criticano la Cina e la Russia comuniste. Ad un documentario sulle condizioni dei contadini calabresi, Gilles preferisce l'incanto degli scavi di Pompei. La storia gli darà ragione. Nel conflitto tra politica e arte, infatti, sarà quest'ultima a spuntarla. La musica, il cinema e la letteratura hanno subito, sul finire degli anni '60, l'evoluzione più drastica, mentre nelle fabbriche il movimento operaio si disgregava abbattuto dalle privatizzazioni selvagge, mentre il dogma statalista cedeva al libero mercato e le piazze si svuotavano. Sembra di udire le parole del capolavoro di Ettore Scola, C'eravamo tanto amati, pronunciate da un trio di ex partigiani nel dopoguerra italiano e tuttavia imparentate al linguaggio disilluso dei figli dei fiori divenuti padri: “volevamo cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato noi”. La ricerca di una sintassi artistica “rivoluzionaria” che fosse adeguata al contenuto politico, veniva allora snobbata da alcune sinistre radicali, qui rappresentate da un manipolo di intellettuali francesi prestati ad un cineforum italiano. D'altra parte, i personaggi di Assayer continuano a riempirsi la bocca di etichette oggi vuote e destinate all'obsolescenza, come “proletariato”, “popolo”, “classe operaia”, ma mai che tra le fila rivoluzionarie faccia capolino un rappresentante del Quarto Stato. Gilles e i suoi amici sono studenti di estrazione borghese, incastrati nel doppio rifiuto da una parte dei metodi scolastici tradizionali, dall'altra dei genitori che vorrebbero per loro un futuro già pianificato. Après mai, pur non cedendo allo stereotipo, non si fa mancare i più tipici clichés sessantottini: i dibattiti, i pamphlet dissacranti stampati clandestinamente, i viaggi in Asia alla scoperta di se stessi, l'amore nudo e libero, il veleno dell'eroina che tinge a lutto i colori sgargianti della psichedelia peace&love.
Senza mitizzazioni, Assayer non distoglie lo sguardo dall'ottusità sterile dell'impegno duro e puro, né dai pericolosi abbagli dell'immaginazione al potere, ma questi suoi occhi disillusi caricano il clima del racconto di una tale amarezza da ricadere nella trappola opposta dell'eccesso di autocritica. Gli attori sono tutti molto bravi, tutti poco più che minorenni, e tutti rigorosamente corrucciati. Altro che beata gioventù! Spicca Lola Créton, già avvistata in Un amour de jeunesse, che ancora una volta riesce ad esprimere praticamente tutto senza fare praticamente nulla, semplicemente esistendo davanti alla cinepresa. E anche lei esibisce un muso lungo che non finisce più. Nel complesso, il film decolla quando indugia sulla bellezza di visi poco più che adolescenti e scorci naturali bucolici, scenari ideale dell'età più verde, ma non riesce a librarsi oltre il mero autobiografismo - il Gilles tuttofare al soldo di dubbie produzioni cinematografiche a base di dinosauri, procaci donne delle caverne e orde di nazisti, ricorda da vicino le prime esperienze sul set dell'Assayer aspirante regista – e non è chiaro fino a che punto, con il suo affresco storico pur puntiglioso, sia davvero in grado di rivolgersi al nostro presente e di rintracciare nel passato i semi dell'oggi, di quel temuto disimpegno politico che, a detta di molti, sta contagiando le repubbliche occidentali fondate sul lavoro precario.
Il film, presentato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, verrà distribuito in Italia da Officine Blu, in data da definirsi.
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