Quando la nostalgia si fa particolarmente indiscreta, monto sulla mia macchina spazio-temporale preferita, Google Earth, e faccio un viaggio di 600 chilometri più a sud, nello spazio geografico, e di quasi 30 anni più indietro, in quello cronologico. Percorro idealmente certi vicoli, torno in certi bar, premo il viso contro la vetrina di questa o quella confetteria e, soprattutto, torno nella mia vecchia casa, che non ho più. La tecnologia non mi permette di varcare la soglia, e allora aggiungo un po’ di fantasia emotiva a quella evanescente e stilizzata del mezzo tecnologico, ed entro. Mi sdraio sul letto e chiudo gli occhi, mettendo in moto la manovella dell’immaginazione, ancora, e del ricordo. Accade, però, che ad un tratto qualcosa interrompa le risate degli amici, la musica dell’orchestra sul palco in piazza e il vociare dalle bancarelle colorate; è LUI, perché anche LUI fa parte di me e di noi. Arriva, con il suo urlo innaturale perché così assurdamente naturale, e sporca, macchia, inquina e sabota il mio mondo, il mio sentiero di rose.
Si, perché, quel giorno, quella casa e quella terra/mamma avrebbero potuto farmi del male, se non fosse stato per la pigrizia di un viaggio evitato all’ultimo secondo.
Si, perché in quelle stanze non c’è solo il ricordo di una festa e delle feste, ma anche quello di bicchieri che cadono, di stoviglie che sbattono e di mattoni che ululano promettendoti di schiaffeggiarti con l’inferno.
Si, perché poco più distante c’erano le telecamere del mondo, di un mondo estraneo, puntate con invadenza su quella fila di involucri di legno, di legno scuro e di legno bianco.
Chi lo avrebbe detto? Chi avrebbe mai potuto soltanto pensarlo? L’orrore che rovista nel tuo bozzolo segreto ed irraggiungibile. O almeno è quello che pensavi.
Ognuno la vive e lo vive a suo modo; non esistono codici, schemi o sentieri preordinati. Sia rispettato il silenzio, comunque, anche quando si fa parola o lettera scritta.