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ARABISSEIDE: l’odissea dell’arabista

Creato il 28 giugno 2013 da Amina De Biasio @aminavagante

di

MICHELE ARCURI, VALENTINA FIORITTO, ILARIA SOLLAZZO, ALBERTO SPICCIOLATO, VALENTINA VANNELLA

Un piccolo saggio (ma non troppo) che si occupa di… Nulla.
Praticamente nulla!
Sono solo i deliri di alcuni (sopracitati) neuroni arabisti.
Un piccolo “saggio” che tra studi disparati e disperati si occupa delle avventure e delle sventure nelle vite di giovani arabisti in erba.
Dedicato a tutti coloro che hanno intrapreso quest’infausta ma nondimeno magnifica strada.

1. Introduzione

L’arabista è colui che, consciamente o inconsciamente, intraprende la via dell’arabo (tariq al-‘arabiyya).
Giunto in un tratto del proprio percorso, l’arabista si pone la domanda: perché non ho scelto serbo-croato?
Nessuno finora è riuscito a fornire una valida risposta a tale quesito.
Nonostante i dubbi, le crisi mistiche, più comunemente detti “attacchi di panico incontrollati”, l’arabista vero non demorde, continuando così per la sua via.
Questo viaggio intorno l’arabista (as-safar hawla al-musta‘rib) descriverà le varie fasi della vita di tali straordinarie creature, e tenterà di spiegarne la vera essenza.
Occorre però, prima d’incamminarci nell’analisi di tali forme di vita, accompagnare il lettore in una prima conoscenza dell’arabista.
Cos’è che distingue un arabista da un anglista, o un francesista?
La risposta a tale domanda è riscontrabile nell’espressione idiomatica “Parli arabo?”, che riassume in due parole la difficoltà e l’enorme differenza della lingua araba (al-luga al-arabiyya) rispetto alle lingue europee. Da questo presupposto, è chiaro quanto l’intraprendere tale percorso comporti coraggio e una sana dose di masochismo e follia (che non guastano mai).

2. L’iniziazione

Un giorno comunemente detto “sciagurato”, l’ignara matricola entra in contatto con creature volgarmente definite “professori”, che l’introdurranno nella “tariq al-‘arabiyya” durante un’innocua lezione universitaria, il più delle volte casuale.
Il professore inizierà il suo monologo, o spiegazione, introducendo la cultura araba nei suoi vari e affascinanti aspetti e avvertendo sin dal primo istante che la Via dell’arabo non sarà affatto una passeggiata ma, anzi, la perfetta via per coloro i quali hanno qualche rotella fuori posto. Inoltre ci terrà a sottolineare la completa (o quasi) inutilità della lingua che si appresteranno ad esplorare, essendo il Mondo Arabo ricco di dialetti, che variano da Paese a Paese, di generazione in generazione, di casa in casa, da uomo a donna, da centimetro a centimetro.
In parole povere, l’arabo classico verrà solo udito nei telegiornali (e non è neanche sicuro).
I pochi audaci che non si lasceranno intimidire da tali avvertimenti, muoveranno i primi passi verso il sentiero dell’arabismo.
Dopo l’avvenuta conoscenza dell’alfabeto arabo, con le sue 28 lettere e varianti di scrittura di esse, in base alla loro posizione nella parola, si noterà la misteriosa sparizione di alcuni elementi della classe.
Il percorso continuerà con gli approcci grammaticali, tramite lo stato costrutto (al-idafa) e gli aggettivi (as-sifa), e i loro esercizi su di un recentissimo libro (1936), che faranno dannare gli ancora innocenti e puri studenti di arabo con frasi del tipo: «La porta della moschea», «Un bel castello d’un re», «Il medico dell’emiro è ammalato», «Io sono il maestro del sultano», «Il vecchio è presso la porta del castello del re».
Superata la prova della frase nominale, (al-gumla al-ismiyya), verranno introdotti allo studio del perfetto (al-madi) e dell’imperfetto (al-mudari‘).
Il perfetto rappresenta un ostacolo di poca importanza, dovendo l’arabista memorizzare per bene le sue desinenze.
L’imperfetto invece inizia già a provocare le prime orticarie allo studente. Come dice il nome, è “imperfetto”, ergo “non perfetto”. E infatti non è perfetto. A differenza del perfetto, che è perfettamente comprensibile ad una prima occhiata grazie alla presenza di sole desinenze, l’imperfetto presenta suffissi e prefissi. La perfetta perfezione del perfetto passa ormai in secondo piano rispetto all’imperfetta imperfezione dell’imperfetto.
Nondimeno la difficoltà (e il vetusto sapore) delle frasi in cui incoccia l’imberbe semitista salgono drasticamente: «Il castello, a cui pervenni, è grandioso», «Non trovai presso la porta del bagno altro che questo facchino», «Non ritornai dalla caccia che a sera», «Questo cammello porta tutte le mie ricchezze ».
Nonostante il sublime tocco vintage, tutte queste situazioni non possono dirsi esattamente quotidiane, anche se l’ormai ammaliato studente non può fare a meno di immergersi in un mondo favolistico che lo porta lontano dalla biblioteca, a cavalcare cammelli, dromedari, facchini, tappeti volanti e ad immergersi in pozzi, ad entrare in castelli, dimore di mercanti e a sostare presso porte grandi, piccole, di moschee o di città.

3. I temerari

Giunti a questo punto, gli innocenti si evolveranno in temerari, considerando la consapevolezza di ciò che stanno facendo, e la decisione di continuare. Alcune scuole di pensiero li denominano masochisti.
L’aspirazione arabista si renderà riconoscibile in vari atteggiamenti, fra cui possiamo annoverare gli occhi lucidi dinnanzi opere calligrafiche, o la compulsiva eccitazione nell’udire parole arabe in televisione e comprenderne mezza (normalmente congiunzioni e/o preposizioni, mezza preposizione vale come una congiunzione).
Va detto inoltre che l’arabista, specialmente finito (con la solerzia e la perizia che lo contraddistinguono) il primo anno, si accorge che il mondo intorno a lui è pieno di luoghi nei quali sono presenti scritte in lingua araba. I loro occhi si illuminano riuscendo a leggere quelle scritte, e nella migliore delle ipotesi anche a capire cosa ci sia scritto. I loro occhi si illuminano ma non solo, perché nella gioia di vedersi sorpassati in macchina da un camion proveniente dal Medio Oriente, la vettura diventa un contenitore di urla e grida nel vedere nella propria terra un mezzo di trasporto proveniente da quelle zone.
In questo frangente, appare la componente P (Parenti), che, venuti a conoscenza dell’insana (a loro avviso) decisione del pargolo, gli porranno scioccati una serie di assurde domande, fra cui, le più gettonate: «Ma quindi ora diventerai musulmano?», «A lezione porti il burqa? (per le donne)», «Arabo e Musulmano non sono la stessa cosa?», «Ti stai facendo crescere la barba per diventare musulmano? (per gli uomini)», «Non dire a nonna che studi l’arabo che quella sennò sai che pensieri si fa, che alla religione ci tiene!».
Posto di fronte a tali affermazioni, l’arabista medio si farà una grassa risata.
Piccoli incidenti familiari a parte, l’arabista approfondirà lo studio dei tempi verbali, e gli verranno inculcate innumerevoli parole, la maggior parte delle quali verranno dimenticate in meno di un secondo.
Dopo otto/nove mesi dal primo approccio, si giunge infine alla prova finale di arabo I.
Ritenendo accantonate le prime ardue difficoltà, ricostruendo stati costrutti e perfezionando imperfetti, ecco che si erge davanti allo studente la grande sfinge del dettato con traduzione senza dizionario. Qualora l’enigma venisse risolto, la temporanea ultima fatica del discente si concentrerà nell’esame orale, il primo di un’interminabile serie. Egli riterrà che questa sia la solita formalità, accorgendosi troppo tardi che in realtà si sbaglia, perché all’orale ci si gioca tutto, perdendo il più delle volte.
Eh si, perché il panico da arabo ti secca la gola e ti spegne il cervello, ti chiedi quale sia la capitale del Paese X piuttosto che il nome del Nilo in arabo, entra in gioco la paura che ti porta dapprima a guardare il tuo professore con occhi spauriti da gazzella del deserto e in secondo luogo ad accettare qualunque voto ti venga proposto.
La maggior parte dei discenti la supererà senza grandi problemi. Ma altri segni di follia galoppante inizieranno ad apparire.

4. La debolezza

L’inizio del II anno segna la svolta decisiva per la vita del neo-arabista. Esso viene infatti definito il “giro di boa-constrictor”. Passato il II anno, l’arabista avrà affrontato circa la metà del suo percorso, o almeno così si dice.
Il II anno viene definito anche come il più difficile ed il più noioso di tutte le annualità, specialistiche, dottorati e master compresi. Al che l’innocente e (ancora per poco) ingenuo arabista cerca di farsi forza e si tuffa nello studio dei macabri argomenti che l’annualità prevede.
Sarà quindi ben lieto di notare che essi variano di capitolo in capitolo, passando da tipologie verbali a tipologie verbali, senza dimenticare anche le tipologie verbali e qualche tipologia verbale. Ah si, ci sono anche delle tipologie verbali. E qui arriva la prima scelta del neo-arabista: lasciare tutto finché si è in tempo o iniziare lo studio di qualche tipologia verbale?
La maggioranza opterà inevitabilmente per lo studio di altre lingue (sono stati registrati casi in cui studenti hanno addirittura cambiato facoltà, città, nome e nazionalità, pensate!), e solo un piccolo gruppo di impavidi varcherà la soglia dell’aula universitaria per assistere alle nuove lezioni.
Inizia così la scoperta di un mondo tutto nuovo: i verbi!
I verbi sono l’Everest dello studente di arabo, c’è chi li impara subito e chi li ripassa ancora pochi minuti prima di discutere la tesi. Esistono tre tipologie di verbi del tipo himalayano:

  • Forme derivate: l’arabista, superato lo shock iniziale, se davvero interessato, potrebbe arrivare a divertirsi nell’applicare gli schemi grammaticali che suddette forme prevedono;
  • Verbi hamzati: si raffrontano nello studente ulteriori segni di instabilità: ipotermia, denti del giudizio, bronchiti termonucleari, psoriasi, perdita di coscienza e schizofrenia galoppante (a cammello, ovviamente). Ma egli, con solerzia e perizia, decide di proseguire;
  • Verbi deboli (da cui il titolo del nostro capitolo).

L’argomento più odiato dall’arabista, da qualunque arabista. Gli arabi nemmeno li volevano.
I verbi deboli vengono presentati quando ormai è tardi per tornare indietro. Quando l’arabista, dopo la ripida salita, comincia al-hamdu li-llah a scorgere la vetta del monte, sul quale sventola felice la bandiera dell’esame, ecco piombare su di lui la ventata di debolezza pronta a farlo ricadere nel baratro (da cui il motto “Non sono i verbi ad essere deboli, sono io”).
“Media debole, prima debole, ultima debole, prima e ultima debole” sono parole che rimbombano nella testa dei poveri studenti, i quali accarezzano sempre più l’idea di cambiare lingua di studio. Ma ormai il dado è tratto, e combattendo con graffi e pugni contro la ratio che dice di prendere altre vie, l’arabista arriva, affronta e vince (in šaʼa Allah) il duello con l’esame.

5. L’amara verità

Siamo giunti quindi alla fase conclusiva (dal punto di vista prettamente teorico) del ciclo di studi dell’arabista standard.
L’annualità viene presentata come fase di rodaggio, come ripasso con l’aggiunta di poche piccole nozioni. Ebbene queste “poche piccole nozioni” sono alla base dell’aggravarsi delle condizioni psico-fisiche dell’arabista. Egli infatti, illudendosi che “poche piccole nozioni” non possano essere tremende quanto le tipologie verbali affrontate l’anno precedente, si reca con fare goliardico alle lezioni, convinto (a torto) che ormai nulla possa più nuocergli. L’arabista si troverà, nevvero, davanti a difficoltà tali da fargli nuovamente rimpiangere la non-scelta di altre lingue.
Il III è l’anno dove si affinano le nobili arti della lettura e della traduzione. In breve, la totale messa in pratica di ciò che si è studiato in precedenza. Ancora più in breve, suicidio di massa. Sì, perché durante questo anno si affronterà la dura realtà che per ben due anni (o quasi) era stata celata agli studenti: i testi non vocalizzati.
Qui c’è bisogno di aprire una piccola parentesi. Chi inizia a studiare la lingua araba verrà subito avvertito, tra le altre cose, che gli arabi hanno un brutto rapporto con le vocali, e per questo quando scrivono non le mettono. Lo studente, dapprima stupito e scioccato da tale nozione, la prende e la depone nel famoso cassettino dei ricordi, poiché egli si troverà davanti termini e frasi interamente vocalizzati. Almeno fino alla terza annualità.
Già, perché qui viene svelato l’arcano: i testi affrontati durante questi mesi saranno solo ed esclusivamente senza vocali. E lo studente, davanti a questa ennesima prova di sopravvivenza, mostrerà definitivamente segni di squilibrio, facilmente riscontrabili in risatine isteriche e nell’uso più che frequente di frasi del tipo «aaaahhh sono depresso» o anche «ma non potevo studiare ungherese?».
Oltre alla scoperta di suddetti testi, l’arabista ormai folle si troverà davanti a delle magiche ed inaspettate combinazioni. Infatti scoprirà che la lingua araba prevede anche delle strane mescolanze tra le varie tipologie verbali affrontate durante la seconda annualità. Ed è così che, derivando forme deboli o indebolendo forme derivate, arriva a stento a ricordarsi il suo nome. Ed in alcuni casi nutre dubbi anche su quello.
Cionondimeno, l’arabista si trova ad affrontare altri ed innumerevoli problemi: lo studio delle lingue semitiche, la cui sola iniziazione dovrebbe prevedere la consegna di un nobel per la pace, visto che egli si troverà davanti a 174 pagine di lingue morte, o moribonde. Lingue dai nomi più impensabili (giangerò, male, kotoko, karekare) vengono poste sotto gli occhi dello sciagurato studente, ormai pronto a tutto.
Ma proprio a tutto.
Si aggiunga, per inciso, che la già fiaccata condizione psicologica dello studente si scontrerà anche con lo studio di alcune varietà dialettali dell’arabo, che nel più fortunato dei casi porterà lo studente a vedersi nello specchio come fosse un autoritratto di Van Gogh.
Ma andando avanti, come dire, alla buona, tra istanti di depressione acuta inframezzati da momenti di divertimento allo stato puro, lo studente arriva alla vigilia dell’esame, conscio del fatto che l’esito sarà dettato da un unico fattore: fato. E così lo studente standard si ritrova costretto ad inseguire la dea bendata per un minimo di due volte, fino a quando, sia ringraziato san Gelasio, riesce ad ottenere il tanto sudato bottino e chiude ufficialmente, ma non ufficiosamente, la sua avventura con l’arabo.
Almeno per ora.

6. La via dell’aceto

Nella lunga carriera arabista lo studente è affetto da crisi mistiche ed esistenziali, chiedendosi quale sia la migliore delle punizioni da infliggersi per aver scelto questa carriera.
Spesso l’arabista incappa, volente o nolente, consciamente o inconsciamente, per volontà o per disperazione, nella cosiddetta “Via dell’Aceto” (tariq al-hall). Questa strada porta irrimediabilmente alla rovina, accumulando nel proprio corpo litri di bevande alcoliche inebrianti al fine di dimenticare tutto il dolore subito nel corso degli anni, per sentire un po’ di calore, per cercare di stare meglio, ma soprattutto per dimenticare quel poco che ancora si ricorda.
Però, in pochissimi e rari casi, seguire la “Via dell’Aceto” porta all’accettazione di se stessi, alla consapevolezza che l’inebriante è solo un piccolo Nirvana nel quale rifugiarsi dopo ore passate a uccidere quei pochi neuroni rimasti in testa, con le armi più devastanti al mondo: le letture non vocalizzate e la Veccia Vaglieri.

7. Conclusione

Dopo tale approfondita analisi, il lettore potrebbe intimorirsi dell’esistenza placida di creature il cui intelletto rasenta la follia, la stessa follia che ha ispirato i sopracitati a scrivere questo pamphlet.
Ma il lettore non deve preoccuparsi di loro. Se non disturbati, sono totalmente innocui, delle volte anche piacevoli a vedersi. Tuttavia, se la loro presenza sul suolo terracqueo intimorisce il lettore, sia avvertito l’interessato dell’inutilità di armamenti o precauzioni di qualunque genere.
L’arabista non è individuabile a prima vista. Egli passeggia placidamente nella società, e solo dopo una chiacchierata sarà possibile individuarlo.
L’arabista non indossa abbigliamenti diversi dalla massa, o non eccessivamente, e non andrà certamente a spasso con abiti orientali.
L’arabista è la persona della porta accanto.
Anche il più insospettabile individuo potrebbe esserlo.
Anche tu, caro lettore.
Anche tu.

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Voglio ringraziare di cuore gli autori di questo pamphlet: mi avete rallegrato la giornata! Sapere che non sono la sola a pensare queste cose, mi fa stare un po’ meglio, mi fa sentire un po’ meno masochista. Shukran!



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