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Archeologia del patriarcato – Capitolo 3

Creato il 29 ottobre 2012 da Femminileplurale

Genealogia della madre e del feto nell’età moderna

 

Archeologia del patriarcato – Capitolo 3

Chris Berens, “The Tattooed Horse” (2009)

Le teorie embriologiche, rimaste sostanzialmente invariate dalla tarda antichità e durante tutto il Medioevo, si modificano in modo consistente agli albori dell’età moderna. Grazie all’invenzione del microscopio diviene possibile per i medici studiare in maniera “diretta” lo sviluppo dell’embrione. I progressi scientifici e tecnologici hanno permesso un nuovo e inedito svelamento dei meccanismi della riproduzione e dello sviluppo fetale. Questo porterà a una non richiesta e arbitraria intromissione all’interno del corpo delle donne.

Grazie alle nuove ricerche, permesse dalle nuove scoperte tecnologiche, dal punto di vista concettuale emergono nuovi aspetti teorici: viene elaborata la teoria dell’animazione precoce, per cui l’animazione del feto viene fatta corrispondere con il momento della fecondazione, teoria che trova sostegno in numerosi testi medici dell’epoca e che viene abbracciata anche da molti teologi. Si modifica, inoltre, il concetto di nascita: nel Medioevo il momento della nascita sanciva l’inizio della vita e coloro i quali non giungevano a quel passaggio acquisivano il significativo titolo di “non-nati”:

La rottura con la rappresentazione tradizionale risulta profonda: secondo una tradizione plurisecolare infatti la nascita coincideva con il venire al mondo del bambino, in un collegamento così stretto da escludere simbolicamente dalla vita umana quanti non erano stati partoriti dalla madre: ‘non-nati’ erano chiamati nel Medioevo quelli che venivano estratti col taglio cesareo dalla madre morta, secondo una pratica introdotta dalla Chiesa per fini sacramentali” (Filippini, p. 119).

In epoca moderna, questo paradigma si modifica profondamente: l’idea di un processo di sviluppo embrionale senza soluzione di continuità introduce il concetto di prima nascita per definire il momento del concepimento, e di seconda nascita per identificare il momento della venuta al mondo. Ciò diminuisce il valore dell’atto del nascere vero e proprio, che viene inteso dunque solo come un momento di manifestazione al mondo di un essere già vivo, formato e presente.

Queste nuove teorie mediche stringeranno una significativa alleanza con uno dei concetti chiave che si sviluppano a partire dalla rivoluzione francese e che sarà essenziale per gli sviluppi socio-politici successivi: il concetto di cittadinanza/cittadino. L’importanza di questo concetto alimenta una nuova concezione del “bambino” e una nuova attenzione ad esso in quanto potenziale attore della futura vita politica e statale. Tale riconoscimento investe tanto il bambino (“il piccolo cittadino”) quanto, per estensione, il non-nato.

La perdita di un individuo qualunque – scrive il Podestà di Venezia nel 1817 – è perdita allo Stato, alla Società; cessa e s’estingue un gran capitale attivo e per l’opera che presta e per i consumi che reca nel turno della pubblica economia. Che se il decesso succede in età decrepita, ed anche poco più che matura, ha già prestata la di lui incombente porzione; se anche adulto, qualche parte di quanto avrebbe potuto contribuire almeno lo diede; ma la Morte infantile […] seppellisce l’intero capitale fruttabile della di lui opera e influenza. Dunque, a mio credere, è l’età che a tutta possa convien assistere, presidiare e difendere.” (cit. in Filippini, p. 122).

Accanto alle motivazioni religiose, emergono con chiarezza anche precise motivazioni politiche ed economiche, capitaliste per la precisione: il piccolo cittadino va salvaguardato in quanto forza lavoro, e il patto sociale, a cui anch’esso partecipa, prevede la restituzione in termini di lavoro della sicurezza che lo Stato gli accorda.

A fianco però di questa “ricostruzione culturale del feto” (Filippini, p. 124), corrisponde

Archeologia del patriarcato – Capitolo 3

Giuseppe Pellizza da Volpedo, “Maternità incipiente”

nel secondo Settencento un’analoga ridefinizione della maternità sui piani medico, sociale, politico. Dal punto di vista medico-filosofico a partire dall’età moderna assistiamo ad una rilevante sostituzione concettuale: mentre nell’antichità e nell’epoca medievale l’anatomia dei sessi si basava sul concetto di similitudine, ora si basa su quello di differenza. La principale conseguenza di questo rivolgimento è l’attribuzione di una nuova enfasi sulla funzione materna come destino biologico della donna.

La tradizione medico-filosofica che attraversa il Medioevo aveva sancito una sorta di priorità della madre sul feto: in casi di gravidanze che mettessero a rischio la madre, essa deteneva una precedenza ontologica sul “non-nato”, inoltre, venivano tradizionalmente riconosciute alla madre funzioni particolari come la possibilità di influenzare aspetto, genere, caratteristiche del nascituro per mezzo della propria immaginazione. La madre poteva trasmettere emozioni, sentimenti e aveva il potere di plasmare il nascituro durante la gestazione. Prodotto di questa concezione sono quelle che noi oggi definiamo “voglie”.

Nell’età moderna la prospettiva cambia: viene negato il valore immaginifico e “creativo” della madre, il suo ruolo diviene sempre più appiattito su quello di “incubatrice”.

Con questo non è nostra intenzione affermare che nel Medioevo le condizioni delle donne fossero migliori rispetto a quelle dell’età moderna, tuttavia è interessante notare come le donne siano state coinvolte nei grandi cambiamenti dell’età moderna in modo del tutto strumentale. L’interesse per la nuova nozione di cittadino e per il concetto di cittadinanza sono stati declinati esclusivamente al maschile: è l’uomo il cittadino, fruitore dello spazio pubblico, la donna viene relegata nello spazio privato.

Lungi dal divenire cittadine e dunque soggetti pubblici, le donne divengono “creature familiari”:

“Identificata la famiglia come il luogo della cura, e la cura come fatto privato, le donne ricevono il titolo di mogli, madri e educatrici del cittadino, e appunto per questo vengono ritenute incapaci di esserlo in proprio. Nascono qui le aporie dell’ugualitarismo e le difficoltà delle donne ad affermarsi come cittadine in nome del loro essere persone anziché della loro funzione sociale.” (Bravo, p. 142).

Un altro aspetto significativo è legato al processo di medicalizzazione del corpo della madre, e al rapporto con il sapere medico. Se fino all’inizio Ottocento il corpo fecondo è ancora analizzato dal punto di vista della donna tenendo conto della percezione di dolori, gonfiori, ecc., alla fine del secolo “in un lungo cammino che va dalle mani del medico, allo stetoscopio ai raggi X, la gravidanza è ormai un insieme di riscontri oggettivi accertati da professionisti, attestati pubblicamente e rilevanti sul piano giuridico” (Bravo, p. 145).

Se da un lato, dunque, la maternità diviene fatto privato, dall’altro lo spazio e le funzioni pubbliche la invadono, si richiede sempre più insistentemente che la donna non lavori e si occupi esclusivamente della prole, si scoraggia e stigmatizza l’impiego delle balie e si va affermando quel ruolo della donna come madre che sarà prodotto tipico dell’Ottocento come ha spiegato anche Elisabeth Badinter.

Proprio nell’età moderna – storiograficamente l’epoca in cui l’uomo inizia a rendersi consapevole dei propri diritti e delle proprie libertà – la donna sperimenta in maniera totalizzante e onnicomprensiva l’appiattimento del suo essere alla funzione materna e l’annullamento del proprio destino nell’oblatività.

Bibliografia: N. M. Filippini, Il cittadino non nato e il corpo della madre (111-137) e A. Bravo, La Nuova Italia: madri fra oppressione ed emancipazione (138-183) in Marina D’Amelia (cur.), Storia della maternità, Editori Laterza, Roma-Bari 1997.


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