Archeologia di me stessa

Mia madre sostiene che fosse il dicembre dell'ottantadue, forse il gennaio dell'ottantatrè; sarà, io ricordo un gran caldo e il fastidio del giubbino in mano, ma magari era l'emozione, la foga per tutto quel bendiddio davanti agli occhi. Fatto sta che mia sorella era nata da pochi mesi e mia mamma, stanca come immagino possa esserlo solo una donna che ha partorito da non molto, si ritrovava ad inseguire la sua figlioletta più grande, nemmeno seenne, da una sala all'altra, accasciandosi su qualunque panca o sedia trovasse, mentre la piccola indemoniata leggeva uno ad uno tutti i cartoncini battuti a macchina, confrontava forme, colori e dimensioni di vasi e recipienti, osservava minuziosamente disegni e incisioni su sarcofagi, statue e papiri, s'incantava davanti ad ogni statuetta o utensile, esplorava da sopra, sotto, destra e sinistra le ricostruzioni delle tombe, sbirciava con un misto di curiosità e repulsione i resti mummificati di uomini, animali e cibarie.
Ci sono tornata ieri, al Museo Egizio: nuovi allestimenti, nuove sale, nuova illuminazione, un sacco di gente dietro alle guide che discettavano di canopi e divinità zoomorfe. Bello e suggestivo, ma niente in confronto alla fascinazione profonda che le sale vuote, buie e polverose avevano esercitato su quella bambina che per anni, poi, complici libri come questo, avrebbe sognato di diventare non una ballerina, né una cantante, né una veterinaria, ma di seguire le orme di omoni seri e baffuti che rispondevano ai nomi per lei impronunciabili di Jean-François Champollion, Heinrich Schliemann, Howard Carter, Arthur Evans.