Magazine Cinema
Vale davvero la pena ripescare dall’oblio cinematografico un film come Arcipelaghi (2001), opera prima dell’architetto sardo Giovanni Columbu che replicherà soltanto molto tempo dopo con Su Re (2012) presentato al trentesimo Festival di Torino, vale la pena perché il sempre bistrattato – e spesso giustamente – cinema italiano a volte è capace di partorire pellicole ardite, sperimentali e tradizionali, ruvide e spigolose, e Arcipelaghi è cavo recipiente di tutto questo, e anche di ben altro: recitato nel dialetto locale al pari, per esempio, de Il vento fa il suo giro (2005) da un cast di non professionisti, il film osa nella struttura mimetizzandosi tra fiction (i flashback) e documento d’inchiesta (il processo penale), ma Columbu non si accontenta di una cronaca dei fatti e allora sia per la parte ambientata nel passato che per quella nel presente disordina gli eventi, gabba continuamente lo spettatore: nel primo caso un montaggio irregolare segmenta la temporalità, saetta gli eventi, li ripropone più volte mostrando come si è arrivati a quel punto visto in precedenza, nel secondo ambientato dentro al tribunale per buona parte della sua durata confonde il crimine e l’imputato, conduce sulla strada sbagliata, sofistica l’impianto giallistico.
Un impianto che in fin dei conti è piuttosto elementare e che forse forse non è esente da qualche insinuazione critica, ad ogni modo eventuali difetti d’impostazione per chi scrive non inficiano nulla, sul serio, la veridicità dei fatti, la loro stabilità, passa in secondo piano perché in Arcipelaghi le procedure investigative per smascherare il o i colpevoli sfumano in uno scenario ben più urgente di una scena del crimine, il paesino di Columbu abitato da facce lombrosiane à la Ciprì & Maresco è una roccaforte del Silenzio, estesa e capillare l’omertà cuce la bocca e obnubila la coscienza: non è solo la reticenza dei testimoni oculari e di tutta la comunità che cova nel suo ventre il criminale ad allarmare il senso civico di ognuno di noi, ma anche quella delle istituzioni (Religione e Stato) che invitano la madre a perdonare o a ricercare le prove da sé, delineando perciò una storia che schizza all’indietro (il fratello di Giosuè che legge in automobile le vicende di Caino e Abele) posizionandosi in territori primigeni, dove non esiste nomos e la giustizia si iscrive nella legislazione della soggettività. Di riflesso il cinema si porta nelle radici, negli interrogativi biblici, compiendo un’indagine all’apparenza poliziesca ma nella sostanza profondamente antropologica, uno studio su un campione di umanità che rimanda all’universale, un nugolo di uomini, donne e bambini sospesi in un purgatorio di innocenza e di colpevolezza.
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