All’indomani della mossa della Fed, numerosi paesi emergenti, dall’Argentina alla Turchia, sono finiti sotto la lente dei mercati. Il contagio potrebbe estendersi nei prossimi giorni, mentre Rajan – governatore della Bank of India – accusa l’Occidente di indifferenza.
di Nicolò Cavalli, da Pagina99
Con l’apertura al ribasso delle borse asiatiche, si è aperta questa mattina un’altra settimana importantissima sui mercati di tutto il mondo. Nelle scorse puntate, i paesi emergenti sono infatti finiti sotto la lente degli investitori che, secondo le stime di EPFR Global, hanno ridotto la propria esposizione in questi mercati di oltre 12 miliardi di dollari solo nel corso di Gennaio. Dopo aver attraversato la crisi globale con performance molto migliori dei paesi cosiddetti avanzati, arrivando a produrre il 55 per cento del pil mondiale, questo gruppo di paesi vede oggi trasformare il futuro in un punto interrogativo.
Fisiologia della crisi - Il primo paese a soffrire il panico dei mercati è stato l’Argentina, che ha visto il peso deprezzarsi del 15 per cento rispetto al dollaro in poco meno di 48 ore, tra il 22 e il 23 gennaio. La moneta argentina si è stabilizzata al valore di circa 8 pesos per dollaro solo dopo la decisione della banca centrale di Buenos Aires di tornare a utilizzare le proprie riserve denominate in valuta estera – diminuite così del 31 per cento alla cifra esigua di 29,5 miliardi – per fermare la fuga. Poi è stato il turno della lira turca, che ha registrato nella giornata di martedì 22 l’undicesimo giorno consecutivo di indebolimento nei confronti del dollaro, cumulando un deprezzamento del 4,3 per cento in gennaio. Contestualmente, i principali paesi emergenti, come Sud Africa, Russia, India e Brasile (i cosiddetti Brics, ad eccezione della Cina che non lascia fluttuare liberamente il renminbi) hanno assistito a movimenti analoghi sui mercati.
Figura 1 – Deprezzamento delle valute dei paesi emergenti
Fonte: Financial Times - Emerging Markets: Fear of Contagion
Il ruolo del tapering - Tutto ciò è accaduto all’indomani della decisione della Fed di confermare il cosiddetto tapering, il piano d’uscita graduale dal terzo programma di quantitative easing intrapreso per stimolare l’economia in appendice alla Grande Recessione. Per oltre un anno, la banca centrale americana è intervenuta massicciamente sui mercati finanziari, arrivando ad acquistare titoli fino a 85 miliardi di dollari al mese – cifra ridimensionata nel Settembre 2013 a 65 miliardi prima dell’ulteriore riduzione di 10 miliardi al mese decisa nell’incontro di questa settimana del board diretto per l’ultima volta da Ben Bernanke. La logica della decisione è chiara: gli Stati uniti viaggiano oggi al 3,2 per cento di aumento del pil e, nonostante le crescenti asimmetrie distributive possano porre ostacoli alla crescita nel medio periodo, continuare a sostenere i corsi azionari artificialmente avrebbe potuto incentivare comportamenti troppo rischiosi da parte degli operatori finanziari, facendo nascere nuove pericolose bolle.
I “cinque fragili” - Prevedendo la strategia della Fed sulla base delle prospettive di ripresa degli Stati uniti, già nell’estate del 2013 Morgan Stanley aveva segnalato possibili difficoltà per paesi come Brasile, India, Indonesia, Turchia e Sud Africa una volta iniziato il tapering. Nel caleidoscopio di definizioni e acronimi che caratterizza la finanza internazionale, la banca d’affari avea definito questi paesi “i cinque fragili”. Motivo? Ampi deficit dei bilanci pubblici e import che superavano di gran lunga gli export: si passa infatti dal deficit di conto corrente dell’India dell’1,2 per cento al 7,6 per cento della Turchia. Questo significa che, per continuare a finanziare le proprie importazioni, questi paesi hanno bisogno di un continuo flusso di denaro dall’estero.
Cause della crisi - Fino a che la liquidità a basso costo fornita da Bernanke inondava i mercati, il denaro si è riversato fuori dagli Stati Uniti e verso i paesi emergenti, in particolare nel pieno della crisi di fiducia che scuoteva l’Europa. I policy-makers hanno tesaurizzato questo movimento di capitali in entrata spingendo le banche centrali a mantenere tassi di interesse relativamente bassi per stimolare l’economia reale (è ormai famosa la battaglia del premier turco Recep Tayyip Erdoğan a favore di bassi tassi di interese contro quella che lui definisce la “lobby dei tassi di interesse”). L’operazione è almeno in parte riuscita anche se, dopo anni di politiche monetarie espansive, molti di questi paesi – India e Turchia in testa – si trovano tassi di inflazione elevati. Così, ora che i rubinetti della Fed si stanno chiudendo, il costo-opportunità di mantenere gli investimenti nei paesi emergenti è cresciuto e solamente un corrispondente incremento dei tassi di interesse nominali da parte delle banche centrali degli stessi emergenti avrebbe potuto attirare di nuovo gli investitori, o convincerli a non fuggire.
La risposta delle banche centrali - Ed è per questo che, nel brevissimo intervallo compreso tra mercoledì e giovedì, tutte le banche centrali dei principali emergenti hanno alzato i tassi di interesse in maniera anche drastica, come nel caso della banca centrale turca passata dal 4,5 al 10 per cento. Questa mossa era necessaria anche per evitare che la crescente esposizione in dollari dei governi e delle imprese, la cui emissione di debito in valuta estera ha raggiunto il record storico nella settimana chiusasi il 13 gennaio scorso, divenisse improvvisamente insostenibile a causa della rivalutazione della moneta statunitense – che avrebbe aumentato il peso reale del debito e forzato molte imprese al fallimento.
Figura 2 – Tassi di interesse e performance dei BRIC
La reazione dei mercati - I risultati di questi interventi, tuttavia, sono stati contrastanti. Nella giornata di giovedì, l’indice azionario Ftse Emerging Markets, che raccoglie 1600 imprese, è cresciuto dell’1,1 per cento, dopo aver raggiunto nei giorni precedenti il record negativo dal Novembre del 2013. Tuttavia, le valute non si sono discostate significativamente dal loro trend negativo se non per brevi momenti e anche gli ulteriori impegni presi dai governi nelle ore successive sono stati considerati troppo deboli e non sono serviti a rassicurare completamente gli investitori. D’altro canto, tassi di interesse reali più elevati implicano un aumento dei costi di credito per le famiglie e le imprese e possono condurre al rallentamento dell’economia: BofA Merril Lynch ha ad esempio rivisto al ribasso le aspettative sulla crescita del Pil turco all’1,7 per cento nel 2014 rispetto al precedente 3,5 per cento.
Fattori di instabilità - A rendere difficile l’aggiustamento sono anche le preoccupazioni per i dati provenienti dalla Cina, che mostrano un rallentamento dell’economia che ha trascinato negli ultimi anni, con le sue importazioni di materie prime e beni intermedi, numerosi mercati emergenti e avanzati – dall’Indonesia alla Germania. Inoltre, con Pechino impegnata in disordinati sforzi per bloccare l’eccessivo credito regolando il suo sistema bancario ombra, il futuro si fa ancora più incerto. Senza contare il rischio implicito legato alle turbolenze politiche in Turchia e Sud Africa e alle prossime tornate elettorali che coinvolgono la maggior parte di questi paesi nei prossimi 12 mesi. I mercati si stanno insomma muovendo verso un nuovo equilibrio, scontando la maggiore rischiosità dei titoli dei paesi emergenti e dando origine a un movimento flight to quality, una corsa verso titoli che hanno fondamentali più solidi, premiando ad esempio i paesi della periferia europea – che hanno visto nei giorni scorsi calare i propri rendimenti sui titoli di stato.
Tutto tranquillo sul fronte occidentale - E’ il segnale di un apparente decoupling, una separazione dei destini dei paesi emergenti da quelli sviluppati. Anche se gli indici azionari di Usa, Europa e Giappone hanno mostrato in Gennaio la peggiore performance dal 2010 (con il Ftse giu del 3,5 per cento, l’Eurofirst 300 dell’1,9, il Nikkei 225 dell’8,5 e lo S&P 500 del 3,6 per cento), sia Goldman Sachs che Rbs ritengono che le probabilità che il contagio si estenda a questi mercati sono al momento molto basse. Da una parte, infatti, l’esposizione delle banche dei paesi avanzati verso quelli emergenti rimane a livelli contenuti, mentre secondo BlackRock – il principale fondo d’investimento al mondo – il fatto che le imprese abbiano preferito negli ultimi anni titoli denominati in dollari o euro le isola, almeno parzialmente, dai problemi valutari in corso. Inoltre, la crescente integrazione commerciale globale non ha ancora raggiunto livelli tali da temere una ricaduta nella domanda per beni dei paesi avanzati: si stima che una diminuzione del 10 per cento della domanda dei paesi emergenti avrebbe un effetto quantificabile a meno di mezzo punto percentuale negli Usa.
Figura 3 – Commercio con i paesi emergenti come percentuale del Pil dei paesi avanzati
Fonte: Goldman Sachs Global Investment Research
Figura 4 – Esposizione del sistema bancario dei paesi avanzati verso i paesi emergenti come totale dell’esposizione estera
Fonte: Goldman Sachs Global Investment Research
La rivolta degli emergenti - Parlare di contagio globale, insomma, è un esercizio azzardato. Non a caso, nonostante i chiari segnali sui mercati, la Fed non ha fatto alcun accenno alla situazione degli emergenti durante le proprie riunioni di martedì e mercoledì per decidere la continuazione del tapering. Un atteggiamento che ha fatto andare su tutte le furie Ragut Rajan, economista di fama internazionale ora governatore della banca centrale dell’India. “I paesi industrializzati devono restaurare il coordinamento delle politiche monetarie a livello internazionale, non possono a questo punto lavarsi le mani e dire che tutto quello che dobbiamo fare sono aggiustamenti strutturali” – ha detto a Bloomberg India Tv giovedì scorso, rincarando le critiche espresse a Davos da Alexandre Tombini, capo della banca centrale brasiliana. E sono numerosi gli esponenti di governi dei paesi emergenti che, almeno privatamente, non lesinano attacchi agli Stati uniti per un comportamento che non tiene conto di come la Fed rimanga tuttora di fatto la banca centrale di tutto il mondo, essendo quella che gestisce la valuta di riserva a livello globale.
Cosa succede questa settimana - I paesi emergenti sembrano dunque destinati a rimanere sotto pressione, almeno fino a che il ribilanciamento della domanda a livello globale non sarà completato. Se non emergeranno notizie inattese che potrebbero far crescere il panico e degenerare la crisi, come accaduto nel 1997 in Tailandia e Sud Corea, la severità di questi movimenti dipenderà da una parte dalla situazione in Cina e, dall’altra, dalla prontezza ed efficacia con cui i policy-makers locali mostreranno di voler rispondere alla crisi – compito tutt’altro che facile in particolare nelle situazioni di forte protesta sociale. Ne è detto che tutti i fronti siano già stati aperti. Altri paesi emergenti potrebbero, infatti, essere contagiati nelle settimane a venire.
Figura 6 – Riserve estere, rapporto tra riserve e import, debito esterno e conto corrente dei paesi emergenti durante la crisi asiatica (1997), la crisi finanziaria del 2007 e oggi
Fonte: BofA Merril Lynch Global Research
Chi è il prossimo? - Mesi fa, la società di risparmio inglese Schroeders, basandosi sulla metrica delle “necessità di finanziamento esterno lordo” – che paragona le riserve in valuta estera di un paese con il suo debito esterno a breve termine e il suo deficit in conto corrente – metteva in evidenza, oltre ai “cinque fragili”, la posizione poco solida di paesi come Cile, Ungheria e Polonia. A questi vanno poi aggiunti, per ragioni legate soprattutto a problemi economici e sociali, almeno altri due possibili target dei mercati: il Venezuela, la cui inflazione galoppa al 56 per cento e soprattutto l’Ucraina che, nel mezzo di una gravissima crisi politica, avrebbe dovuto ricevere venerdì scorso la seconda tranche del prestito russo da 15 miliardi – al momento sospeso. Durante il weekend, Moody’s ha declassato i titoli ucraini al livello Caa2 con outlook negativo, seguendo l’analoga decisione di Standard and Poor’s. E il presidente Yanukovich, allontanatosi per una misteriosa malattia nel mezzo delle proteste, si è affrettato a tornare in patria tra le voci di un imminente pacchetto di salvataggio occidentale. Ci sono tutti i segnali a questo punto per temere che il paese possa tornare in serie difficoltà anche dal punto di vista finanziario.
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