Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 3/2013, Le tentazioni della cultura.
Con trent’anni di carriera e una dozzina di dischi alle spalle, gli uni e gli altri improntati al più ironico disinteresse per le leggi dell’autopromozione, gli Aukcyon sono il segreto peggio custodito del rock d’avanguardia post-sovietico. Gli intenditori sanno da tempo che cosa pensarne, i cultori di cose slave li conoscono bene (Paolo Nori li cita in un romanzo), ma nonostante i concerti all’estero e i mille progetti paralleli, il gruppo di Leonid Fëdorov, beffardo, ludico e provocatorio, resta una mina vagante.
Fusion? Folk? Cabaret dadaista? È molto difficile, anche a fronte di un’impronta stilistica piuttosto omogenea nel tempo (concordia discors se mai ve ne furono), dare un nome alla miscela sonora dei pietroburghesi. Se nelle loro primissime cose si avverte qua e là una vaga impronta new wave, il risultato è già del tutto straniante: sono gli anni Ottanta di una civiltà aliena, musica X da un universo parallelo. Ben presto anche gli ultimi vocaboli rock verranno riassorbiti da un linguaggio armonico e formale che, senza rinunciare a un confortevole diatonismo (si potrebbe parlare di avanguardia morbida, senza dissonanze), risulterà del tutto astratto, irriducibile al modello della canzone. Le coordinate sono quelle di certo jazz modale – ostinati, armonie sospese, assenza di tensioni e cadenze, rarefazione del disegno – ma su questa grammatica “cool” viene innestato un vocabolario schizoide: dallo swing alle marcette, dal free jazz a motivetti da balera, passando per gli inconfondibili melismi “asiatici” delle linee vocali di Fëdorov. Art-Rock come potrebbero suonarlo a Krasnojarsk, con una cassa di strumenti caduta da un vagone della Transiberiana. All’opposto di Frank Zappa, che amava disgregare dall’interno gli stilemi della musica più trita, gli Aukcyon ricreano modelli vagamente familiari con mezzi del tutto eterogenei, straniandoli prima ancora di averli evocati, dando luogo a un equilibrio precario sempre in procinto di mutare e disgregarsi.
Ma andiamo con ordine, cioè partiamo esattamente dal mezzo: dallo straordinario Žilec veršin [L’inquilino delle vette] del 1995, dove si incrociano tutti i fili della nostra storia. Disco di piena maturità, traboccante di colori, forme e soluzioni strumentali, presenta gli Aukcyon al servizio di due ospiti di eccezione: i testi sono di Velimir Chlebnikov (1885-1922), il più estremo e visionario poeta futurista russo; la voce dietro il microfono è quella di Aleksej Chvostenko (1940-2004), poeta, chansonnier, artista plastico e veterano della controcultura sovietica.
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