Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ah nostalgia, nostalgia canaglia. E ci sono quelli che rimpiangono la divisa da boy scout, e siccome sono cresciuti, è cresciuta anche la voglia di medagliette, galloni, mostrine e pennacchi, di quelli che si possono esibire comodamente in ufficio. E ci sono quelli che aspirano a rinnovare i fasti propagandistici e elettorali di qualche milione di baionetta. E ci sono quelli, irriducibili, che magari vorrebbero tornare nelle colonie dell’impero per essere risarciti moralmente dell’aver lasciato Tripoli bel suol d’amore, senza aver potuto approfittare appieno dei sodalizi stretti con rais e tiranni.
Poi invece ci sono quelli che dalla storia hanno imparato solo che finché c’è guerra c’è profitto, che in tempi di crisi i massacri sociali è meglio che sconfinino in quelli bellici, con annessa ricostruzione, grandi opere, grandi business, grande occupazione, calo della popolazione, calo delle aspettative, calo della critica ammansita dal comune e doveroso impegno di resurrezione dalle macerie e dal lutto condiviso.
E ci sono quelli che hanno talmente introiettato un’indole gregaria, quella che serve a garantire successi e rendite di posizione tramite l’assoggettamento e l’ubbidienza, che si prestano entusiasticamente a muovere guerre nel ruolo di euforici mercenari al servizio del solito autonominato padrone del mondo, che noleggia loro i droni, ma disarmati: perché servano occorre l’ok del congresso, che li manda avanti perché a lui viene da ridere, pensando all’inanellarsi di sconfitte subite a dispetto di mezzi e vanagloria, che tiene in scacco un continente codardo con le minacce e le lusinghe di trattati suicidi della sovranità economica e sociale. E parla a suo nome un’Europa che ha rinunciato a una politica estera e a quell’imperativo morale che dovrebbe distinguere stati di diritto, e che persegue la politica punitiva del “sono affari vostri” esercitata nei confronti di paesi spreconi e fannulloni, condannati anche geograficamente al ruolo di terroni, da dirigere ed educare con pugno di ferro. Salvo però farsi gli affari suoi, quelli sempre più opimi grazie all’export di armi che vale 40 miliardi, con un target vario di consumatori che vede in testa con ordinazioni da 3,5 miliardi all’anno, l’Arabia Saudita e i suoi mecenati dell’Isis, e con un volume d’affari di 13,7 miliardi della Francia, maggiore esportatore, seguita da Spagna (7,7 miliardi), Germania (4,7 miliardi) e Italia (4,2 miliardi).
E così si va in Libia a smentire il pensiero di Schumpeter secondo il quale il capitalismo è di per sé un sistema antimperialistico, convinto che in un regime di libero scambio, fosse assente una classe sociale interessata all’espansione aggressiva. Che la borghesia capitalistica sia un ceto essenzialmente pacifico, perché indirizzato anche idealmente alla crescita economica, al commercio e agli affari, e non all’espansione territoriale, alla conquista militare e alla guerra. e persuaso che l’imperialismo sia un residuo del passato, di classi dirigenti e caste militari ereditate da società precapitaliste o, al più, protocapitaliste, che hanno perseguito l’espansione per l’espansione, la lotta per la lotta, la vittoria per la vittoria, la supremazia per la supremazia. La verità è che la storia è una spirale, si riavvita su se stessa intorno all’eterno perno del profitto e della sopraffazione e passato il tempo delle magnifiche sorti di progresso, crescita illimitata, tecnologia torna ai vecchi sistemi cruenti e sanguinosi.
Si va in Libia a battere la mafia degli schiavisti, pensando di sconfiggerla non sradicandone l’orrenda egemonia che abbiamo contribuito a consolidare, ma andando a cercare i picciotti, la manovalanza, peraltro dinamica e ben attrezzata di agenzie di intermediazione attive qui da noi, indifferenti al fatto che si tratta di un lungomare dietro al quale c’è un retroterra sconfinato di disperazione che preme, che negare l’asilo alla fonte significa la punizione incivile di rimandare indietro i fuggiaschi, imperturbabili delle rappresaglie della rete criminale dei negrieri nei confronti dei molti italiani delle grandi aziende che lavorano là oltre che dell’importazione di probabili ritorsioni qui. Sarà per quell’istinto all’eufemismo che i 5 mila uomini “pronti a partire” della Pinotti, i blitz contro gli scafisti, i blocchi navali e le operazioni di terra, vengono presentati come “interventi mirati” per “assicurare alla giustizia questi criminali” effettuati da non meglio identificate forze di polizia civile, nell’ambito di un’operazione navale sul modello dell’operazione europea Atalanta contro la pirateria somala. E che innamorati dei fasti delle operazioni antipirateria modello “Golfo di Aden”, quelle che prevedevano unicamente coperture di scorta alle navi mercantili – come se non fosse bastata l’avventura dei due “loro” marò – viene trattata con imperturbabile arroganza l’eventualità niente affatto remota che operazioni di polizia assumano il carattere aggressivo di una violazione di sovranità, soprattutto a fronte della mancanza di interlocutori istituzionali e di una copertura non solo virtuale o morale dell’Onu.
Il fatto è che le crisi decantano e come nel caso delle catastrofi ambientali, nulla avviene accidentalmente e imprevedibilmente. Ormai le degenerazione dell’urgenza in emergenza è un sistema di governo, perché permette lo scavalcamento dello stato di diritto, legittima misure eccezionali, legalizza regole straordinarie, figure e incarichi speciali, antepone il realismo alla visione del presente e alla progettazione del futuro.
Per carità, la rottamazione delle imbarcazioni ha un valore simbolico, per carità perseguire gli schiavisti è doveroso, chiedere condivisione all’Europa è comprensibile, magari esigendo la revisione di trattati e non solo quelli economici, guardando con onestà al fatto che una quota di 5000 “ammissioni” è ridicola, ma anche che gli altri partner hanno accolto molti più profughi di noi, senza che la percezione della loro presenza sia così drammatizzata, ma siamo sempre ai cerottini sulle piaghe e all’anestesia del pensiero e della responsabilità, iniettata con l’ipotesi di blocchi navali, con gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, col silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria e l’Iraq alla Palestina, dall’Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.
Ben altro si dovrebbe per fermare lo sterminio, oltre a perseguire i kapò: aprire i campi di raccolta in alcuni Stati africani, per i quali esistono stanziamenti comunque meno onerosi della confusa “compassione” pelosa che si sta esercitando, chiarire che l’omissione di soccorso costa di più in democrazia, umanità e finanziariamente, di un sistema di vigilanza e tutela delle frontiere, rivedere i regolamenti primo tra tutti quello di Dublino. Ma ancor prima è necessario respingere al mittente le “cravatte” che strangolano con l’austerità le politiche sociali e assistenziali, incluse le spese per l’assistenza e il salvataggio di migranti e richiedenti asilo, e che colpiscono in particolare proprio i paesi più “esposti” al flusso.
Però anche questi sono bende che servono più alla cattiva coscienze che al ristabilimento della giustizia e dell’umanità oltraggiate. Salvare la gente dal mare, che non sarà fermata o scoraggiata dall’abbandono, dall’indifferenza, dall’odio razzista, è obbligatorio, è il prezzo della vergogna, ma anche il regalo della consapevolezza che con loro proteggiamo noi stessi dallo sfruttamento, dalla violenza e dalla sopraffazione di un modello di vita senza lavoro, senza diritti, senza protezioni, senza bellezza, senza istruzione, senza storia, senza futuro.