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Armstrong, l’insana sete di vittoria e l’editoriale che vorrei.

Creato il 19 gennaio 2013 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Mi sono sempre piaciuti gli editoriali. Parlano dell’attualità in veste inconsueta: un approfondimento che, spesso, è personale, che lascia sempre tra le righe un po’ di chi l’ha scritto.

Sentendo l’intervista di Ophra a Lance Armstrong mi sono detta che le grandi testate si ricordano del ciclismo solo quando si parla di doping o quando, disgraziatamente, muore qualcuno. E che un editorialista, probabilmente, domani mattina sarebbe uscito con il solito titolo “La confessione di Armstrong” o cose creative come “Il pinocchio del ciclismo”. A me sarebbe piaciuto qualcos’altro. Un colpo di teatro migliore che quello di raccontare l’epopea di un divo pentito a uno show televisivo.

armstrong
C’è una cosa che mi ha colpito, di quello che ha detto Lance, a proposito del “perché” abbia fatto uso di quelle sostanze, della sua ricerca forsennata di una vittoria che, alla fine, si è rivelata penosamente costruita. La malattia, a quanto pare, è la chiave per leggere tutto quanto. “Mentre mi stavo curando” ha detto Armstrong “sentivo dentro di me una forza positiva: avrei fatto di tutto per continuare a vivere. Ho combattuto, come è nel mio carattere.” E poi, forse, è scoppiata quella scintilla. Il fatto di aver sconfitto il cancro è diventato il pretesto per dimostrare a tutti, persino a sé stesso, che Lance Armstrong era invincibile. Non solo nella vita ma anche nello sport. Quella vittoria meravigliosa che l’aveva riportato ad essere un uomo è diventata, paradossalmente, la sua ossessione. Non bastava a Lance ritornare in gruppo, riavere l’affetto dei suoi compagni, dei suoi tifosi. Voleva che tutti, nel mondo intero, dicessero: “Hey, quello è Armstrong. Ha sconfitto una malattia tremenda e ora è sul podio del Tour de France”. Sette volte. Una specie di vortice che ha avuto per forza bisogno del demone doping per continuare a girare.

Penso a tutti quelli che sono rimasti schifati, inorriditi, stupiti davanti alle parole di ammissione dell’ex campione. Mi sono sentita così anche io, specialmente perchè il ciclismo non si merita tutto questo fango, non si merita di essere, davanti agli occhi del mondo, la pecora nera degli sport. Ma c’è qualcosa che mi è venuto in mente, mentre sentivo l’intervista. Ho pensato ad Alessandro Proni. Certo forse i tg che devono riempire quei cinque minuti dedicati alla disfatta del vincitore di sette Tour, non sanno nemmeno chi è. Anche Alessandro ha combattuto contro una malattia. Non la sua ma quella di sua sorella: una leucemia. Nel 2010, rimasto senza squadra, si è sottoposto ad un intervento per donarle il suo midollo osseo, per starle vicino, per farle un po’ da gregario, e correre insieme per la vittoria sulla vita. Purtroppo questo non è stato sufficiente. Lei non c’è più ma Alessandro è tornato in gruppo. In silenzio, senza che i giornali mettessero i titoloni in prima pagina. Ha ricominciato a pedalare, anche dopo la battaglia contro la leucemia, dopo il suo sacrificio per una persona importante, speciale, a cui voleva bene.

Lance e Alessandro non hanno assolutamente niente in comune. Solamente il mostro della malattia: a uno ha inculcato la sete mai soddisfatta di successo, di vittoria; all’altro ha insegnato che quello che conta è combattere con le nostre forze. Non c’entra il mondo, non c’entrano gli applausi, i consensi, il vedere Parigi dall’alto: l’immagine che guardiamo allo specchio non sarà mai nitida e serena se la costruiamo con le bugie e i pretesti. Ma solo con l’onestà di aver fatto tutto quello che era possibile. Di averlo fatto bene, di averlo fatto con affetto, con amore, con passione. Non c’entravano i Tour, Lance: ti avrebbero amato lo stesso. E solo per il sano coraggio che avevi avuto di remare contro le intemperie della vita. Non c’entravano quelle sette vittorie, Lance. La tua immagine pulita l’avrebbero amata per sempre, non solo per qualche anno.

E’ questo l’editoriale che vorrei. Fare capire, anche solo per un istante, a chi legge le prime pagine del giornale, magari distrattamente, magari macchiandole di caffè, che il ciclismo sì, alla fine, è come il mondo. Ci sono gli imbroglioni, gli assetati di vittorie insane, gli arroganti. Ma ci sono anche gli onesti. Quelli che pedalano in mezzo al gruppo, gomito a gomito a tanti altri, che si portano dietro il loro dolore e la loro fatica. Solo con il loro corpo e il loro sangue nelle vene. Vorrei un editoriale così, che per una volta, non parlasse della notizia che si pesca nella superficie mossa dalle correnti ma che vada in profondità, a cercare quelli che sono puliti e si devono trascinare il fango di altri. Che amano il ciclismo e lo rispettano. Che hanno ripreso in mano la bicicletta e l’hanno trasformata in uno strumento di riscatto. In silenzio.



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