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Arona & Serra - Yesterday Was 2012: Vision 1
Creato il 22 ottobre 2012 da Alessandro Manzetti @amanzettiIl progetto Yesterday Was 2012 si compone di sei puntate, chiamate "Vision", oggi potrete leggere la Vision 1, che sarà seguita da altre cinque visioni, fino al 20 dicembre 2012, quando è programmata l'ultima puntata, giorno della vigilia della fine del mondo. Le prime quattro Vision, per la parte artistica curata da Daniele Serra, proporranno una connessione virtuosa e affascinante con alcune grandi opere di architettura contemporanea, che Serra interpreterà volta per volta con il suo binocolo cosmico, in gradi di rivelare le rovine, le macerie di queste grandi opere artistiche, ovvero ciò che ne resta dopo la fine del mondo. La prima architettura che sarà scaraventata oltre il 21 dicembre 2012 dai colori e dalle linee di Serra, è l'Opus Tower di Zaha Hadid di Dubai. Le architetture che Serra interpreterà volta per volta sono di recente realizzazione o, più spesso, ancora in fase di progetto, almeno in questo mondo che ancora vive senza curarsi del 21 dicembre 2012. Le opere che Serra proporrà sono inedite, realizzate ad hoc per questo progetto, che intende sperimentare le connessioni tra varie forme artistiche. Le ultime due illustrazioni saranno invece collegate alla storia, antica e moderna, con impronta sociologica e antropologica, che specie nell'ultima illustrazione della serie sveleranno, davanti al disastro imminente, alcune reminiscenze pagane dell'uomo, con forti simbolismi che tornano a essere di attualità nell'animo umano. Devo ringraziare Daniele Serra per avere accettato una sfida artistica così complessa, che dimostra la sua voglia di sperimentare nuovi scenari. L'altro protagonista del progetto è Danilo Arona, che contribuirà con un racconto inedito, dal titolo "Il Collassatore", capace di farci vivere la fine del mondo, gli scenari e le rovine del nostro pianeta, le sue trasformazioni e nuove pulsioni, attraverso gli occhi, gli incubi e le visioni di un sopravvissuto al grande evento, unico e ultimo osservatore del nostro mondo. Danilo Arona non è nuovo a questo tipo di temi, anzi può essere considerato un maestro, un "grande ascoltatore" del nostro pianeta e dei suoi silenziosi respiri cosmici, come ci ha dimostrato in molti dei suoi romanzi. Abitante virtuale di una realtà parallela come quella di Bassavilla (la sua Alessandria) e di Montebuio, scenari di molti dei suoi romanzi, nel racconto Il Collassatore troveremo molte delle sue "chiavi magiche", adatte a scoprire, accedere alla realtà dietro le ombre, i flussi sotterranei sopra ai quali camminiamo senza accorgene, le invisibili vite fantasma dell'incoscio, che si materializzano come leggende, tradizioni oscure del nostro territorio. Vorrei presentare adeguatamente i protagonisti artistici di questo progetto, per chi ancora non ha avuto occasione di conoscerli attraverso le loro opere. Ma lo spazio oggi è poco, e devo dedicarlo ai contenuti, rimando quindi ai siti degli artisti per maggiori informazioni. Daniele Serra Danilo Arona. Se volete, qui potete trovare anche le interviste ai due protagonisti di Yesterday Was 2012, pubblicate qualche tempo fa: Intervista a Daniele Serra Intervista a Danilo Arona Segnalo, tra le novità che riguardano Daniele Serra, la recentissima vittoria al British Fantasy Award 2012, che gli ha consentito di aggiudicarsi il prestigioso "Artist Award", avendo la meglio su grandi protagonisti internazionali dell'illustrazione di genere come Ben Baldwin, Vincent Chong e Les Edwards. Ma Serra è stato protagonista anche all'ultima edizione del premio Bram Stoker Awards della Horror Writers Association, con la realizzazione della cover del libro Isis Unbound dell'autrice inglese (e mia cara amica) Allyson Bird, opera di genere steampunk vincitrice dello Stoker nella categoria "miglior romanzo d'esordio". Danilo Arona è superfluo presentarlo, per lui parla una lunga carriera di giornalista, saggista e scrittore di narrativa fantastica. Tra le novità della sua produzione artistica segnalo il nuovo romanzo "L'autunno di Montebuio" (scritto insieme alla giovane Micol des Guiges), che sarà a breve pubblicato dalla nuova casa editrice Nero Press dell'Associazione Culturale Nerò Cafè, una realtà nata da un mio progetto web di qualche tempo fa, e che oggi viene portato avanti con entusiasmo dai vecchi amici e compagni della redazione storica e da nuove risorse. Il libro, che grazie all'autore ho avuto occasione di leggere qualche mese fa in anteprima, è attualmente in prevendita qui Altra novità editoriale in arrivo di Danilo Arona è il libro Vento Bastardo (Iris Edizioni) in uscita a novembre. Presentati molto sommariamente i fantastici protagonisti di Yesterday Was 2012, con i quali ho già avuto il piacere di collaborare per altri progetti artistici e di comunicazione, è il momento di entrare nel cuore del progetto e della Vision 1. Sopra trovate l'opera architettonica Opus Tower dell'architetto iracheno Zaha Hadid. Questa è la prima sfida che ho lanciato a Daniele Serra, sicuramente non facile vista l'essenzialità, il minimalismo delle forme e del soggetto che ha dovuto affrontare. Sotto trovate la sua splendida intepretazione di questa architettura, lanciata nello spazio e nel tempo, qualche settimana dopo la fine del mondo. L'illustrazione è zoomabile per poterla apprezzare nella originale dimensione. Il nome di questa illustrazione originale di Daniele Serra, realizzata per Yesterday Was 2012, è "Dubai" L'interpretazione di Serra dell'opera architettonica della Hadid la trovo estremamente interessante, a prima vista mi ha ricordato le strutture aliene de "le Montagne della Follia" di H.P. Lovecraft, ma anche alcune geometrie di Fernand Léger. Il minimalismo formale, che riprende quello della struttura originale della Hadid, comunica l'assenza e nello stesso tempo una presenza inquietante, ben oltre lo scenario apocalittico richiamato dalle lingue degli incendi, sfumate dall'artista come cornici dell'opera. La parte posteriore della struttura, con l'invenzione della finzione tentacolare, suggerisce una "sollevazione" che disorienta, sposta le prospettive, è l'emozione giusta che dobbiamo aspettarci, in questa visione della trasformazione delle realtà, strutturale e artistica, ma anche "biologica" come suggerisce Serra con quel motore di cellule aliene che muove la struttura, animandola. Quello che colpisce di più nella visione di Serra, e che offre spessore e originalità a quest'opera, oltre alla "presa di vita" della struttura, è l'idea del movimento verso l'alto, qualcosa di straniante che tormenta l'occhio in una infinita attesa, una infinita solitudine e incomprensione della realtà e delle dinamiche fisiche, per come eravamo abituati a conoscerle, considerando che siamo a poche settimane dal 21 dicembre 2012. Le visioni di Serra, che partono oggi dalla struttura della Hadid e da Dubai, si sposteranno nelle prossime puntate di Yesterday Was 2012 verso altre location, che avranno il proprio ombelico in altre celebri opere di architettura contemporanea. Il prossimo appuntamento ci svelerà uno dei volti della nuova Praga post apocalittica, poi Serra ci farà viaggiare orientando il suo binocolo magico (probabilmente preso in prestito da Hieronymus Bosch) su altre zone del pianeta Terra, tra rovine e macerie, dal deserto del Qatar fino alle aree metropolitane come Berlino, dove scopriremo un nuovo "muro" vivente, per arrivare a New York, novella Ilio, dove si concluderà il viaggio deformante di Serra, in un contesto pagano e simbolico che ci ricollegherà dall'architettura alla storia antica e moderna. La sperimentazione del progetto cerca dunque connessioni tra varie forme artistiche, come il disegno, l'artwork, la narrativa, l'architettura contemporanea, cercando anche di offrire riferimenti con alcune fonti dell'arte, come gli essenziali "motori" della storia. Questo progetto rappresenta dunque in pieno l'approccio multidisciplinare che contraddistingue i contenuti e le proposte di Mezzotints. Ma abbiamo anche una terza protagonista di questo primo numero di Yesterday Was 2012, l'architetto Zaha Hadid, e penso sia doveroso presentarla. La mia esperienza diretta con le opere architettoniche della Hadid si racchiude in una visita al MAXXI di Roma, Il Museo della Arti del Ventunesimo Secolo, da lei realizzato nel 2009. Un'opera che mi ha colpito molto, specie la gestione dello spazio all'interno, destrutturato e sognante. Ricordo vividamente le lunghe scale che collegano le varie sezioni del museo, magicamente fluttuanti nello spazio, tanto da lasciar immaginare al visitatore di camminare sulle nuvole, come se la struttura portante fosse in grado di esistere e di nascondersi all'occhi e ai sensi. Una visita che consiglio, anche per le varie interessanti mostre che vengono organizzate all'interno. L'opera che ho scelto per questo primo numero, l'Opus Tower di Dubai (Emirati Arabi), che Daniele Serra ha reinterpretato (inizialmente maledicendomi per la scelta) è un progetto iniziato nel 2007 ma non ancora terminato. Ho scelto la Hadid per il suo approccio radicalmente nuovo nell'architettura, che in molte delle sue opere si caratterizza per la geometria frammentata e destrutturata che intende evocare il caos della vita moderna. Niente di meglio che affiancare il Caos architettonico con quello della fine del mondo. La Hadid, originaria di Baghdad, è stata la prima donna a vincere il Premio Pritzker per l'architettura, non potevo dunque non omaggiarla in questo progetto sperimentale dedicato "anche" alla architettura contemporanea. l'Opus Tower di Dubai è una struttura a destinazione d'uso misto, per un centro direzionale regionale e internazionale per multinazionali e aziende locali. Due torri, che danno l'idea di un corpo unico, prendono la forma di un cubo sollevato dal suolo che sembra essere consumato al centro da un enorme vuoto “fluido”, corroso da una specie di acido alieno, rappresentativo, ne parlavo prima, della sfuggente geometria delle architetture di Zaha Hadid. “Si tratta di un edificio – come commenta l’autrice stessa – che sfida l’idea tradizionale di un’area direzionale. Non solo per la sbalorditiva geometria, ma anche perché sarà un luogo che vanterà una migliore qualità ambientale grazie all’utilizzo delle tecnologie più avanzate. Tutti gli aspetti del progetto sono stati meticolosamente studiati perché consentissero un utilizzo ottimale degli spazi, con materiali in grado di garantire durabilità, efficienza e resistenza nonché un ottimo isolamento acustico in difesa della privacy”. Arrivando ai materiali utilizzati, le pareti interne del vuoto al centro del cubo sono rivestite in vetro in modo da consentire la vista nello spazio all’interno, attraverso un sistema a tenda di pareti curve realizzate in vetro semitrasparente, mentre sulla facciata la Hadid ha immaginato degli elementi in fritta riflettente (un tipo di vetro semilavorato) che consentono alla struttura di riflettere la luce e smaterializzare dunque il suo il volume d'insieme, la sua massa. Emotivamente, sembra di trovarsi di fronte a un enorme cubo di ghiaccio in fusione nel deserto. L'illuminazione notturna della parte centrale, quella aliena dell'opera, dona un volto diverso alla struttura, invertendo il volume dell'edificio rispetto al giorno. Il vetro pixelato è progettato specificamente per il progetto e è in grado di materializzare una serie di riflessi e di giochi di luce assolutamente inediti. Ora passiamo alla componente letteraria del progetto Yesterday Was 2012, affidato nelle mani oscure di Danilo Arona. Dal binocolo magico di Serra ora potremo condividere le visioni e gli incubi post apocalittici di Arona, che circonderanno le nostre emozioni, strangolando il quotidiano che non potremo più osservare allo stesso modo. Ho letto molte opere di Danilo Arona, e devo dire che nel racconto inedito "Il Collassatore", che sarà pubblicato in questo progetto, l'autore ha "versato" un esempio della sua prosa più ispirata; moderna, deformante, ricca di energia e di immagini di acciaio e di nuvole, originale e assordante come è poi nelle corde di questo autore. Un lavoro assolutamente non minore nell'ambito della produzione dell'autore, ma che può essere ascritto, a ben diritto, tra le migliori visioni in assoluto di Danilo Arona. Una fortuna poter pubblicare, grazie alla disponibilità dlel'autore, un lavoro di questo spessore, ancora inedito. Un "gioiello" narrativo che si svela solo per questo progetto sperimentale. Ecco come l'autore stesso ci presenta sinteticamente il suo racconto che sarà pubblicato a puntate su Yesterday Was 2012: La fine del mondo giunge annunciata da un suono spaventoso che si ode in tutto il mondo. Sembra un coro allucinato di vuvuzuele e al suo arrivano incubi condivisi e morti che si risvegliano. Uno psicologo milanese riesce a fuggire dalla metropoli impazzita e a raggiungere una baita sui monti della Val Brembana. Qui trascorre dieci anni in una terrificante solitudine, tra incubi e presagi inquietanti. Poi un giorno non ne può e decide di scendere, percorrendo a piedi una pista infernale che lo condurrà a quel che resta di Milano... Vi lascio alla lettura della prima parte de "Il Collassatore" di Danilo Arona, segnalandovi, per chi lo preferisce, che è possibile scaricare questa puntata del racconto in pdf. Il Collassatore 1°Parte © Danilo Arona 2011 Eppure un incubo, fra i tanti del repertorio condiviso, aveva annunciato l'Evento con molta più chiarezza degli altri. Purtroppo, allora, non avuto saputo interpretarlo. In quei giorni che avevano preceduto le Trombe del Giudizio cercavo di stare a galla tra vodka e follia. Soprattutto quella che credevo essere la follia degli altri. Avrei dovuto stare in campana (per fare che, poi?) perché gli incubi collassatori appartenevano al genere “indimenticabili”. Cioè, a differenza dei sogni normali, si ricordavano. Anche a distanza di anni. Correvo in una coltre di buio pesto in autostrada a velocità sostenutissima. Notte d'inverno, molto dopo la mezzanotte. Qualche fiocco di neve svolazzante, ma visuale lunga e perfetta. Situazione ideale per tirare la bestia da 400 cavalli che nel sogno ti ritrovavi sotto il culo. In realtà ogni giorno guidavo un SUV un po' vecchiotto che non ce la faceva quasi più, ucciso dalla guida cittadina. Accendevo la radio di dotazione (che sul SUV non possedevo neppure) e, come iniziava una languida musichetta da cocktail lounge, eccolo. Il segnale. Un suono assordante e disastroso nei suoi effetti prorompeva dalle casse, sbriciolando i vetri dei finestrini alle mie spalle. Bloccavo subito l'auto, una BMW mi pare, in corsia d'emergenza, schiacciando in contemporanea la manopola dello spegnimento. Ma la radio non c'entrava. Il suono insopportabile e terribile continuava e allora mi gettavo fuori per tentare di capirne di più. Quella tortura sonora era dovunque. Nell'aria della notte oscura sopra di me, nel buio di un'autostrada in cui mi ritrovavo del tutto solo, nella terra vibrante sotto le mie scarpe. Un orrido misto fra milioni di urla umane, il rombo di un cataclisma cosmico in arrivo dallo spazio, miliardi di vuvuzele diffuse con un dolby planetario. E la terra che tremava e ondeggiava, in preda a un terremoto. Non mi restava che risalire in macchina e tentare un'impossibile fuga. Anche nella realtà mi sarei comportato nell'identico modo Schizzai via. Davanti a me. Immergendomi nel nero. Quando la bionda con il giubbotto rosso compariva al centro strada attendendo l'impatto al quale si era predestinata, era troppo tardi per tutto. Non potevo che centrarla ai 200 km orari. Subito dopo dovevo tenere l'auto in assetto per non volare via anch'io. Dopo essermi salvato e avere bloccato per la seconda l'auto in corsia d'emergenza, scendevo e per prima cosa andai a controllare i danni sulla carrozzeria anteriore. Le vuvuzuele della Notte del Giudizio si udivano ancora, ma era come me le fossi lasciate qualche chilometro più indietro. In ogni caso si stavano avvicinando. I danni, per forza, si vedevano. Ma c'era, per forza, dell'altro. Pezzi, grumi, sangue, frattaglie e carne trita. Il tutto a sgocciolare sull'asfalto. Non mi restava che andare a prender visione dello scempio là dietro. Uno scempio percepibile ma non altrettanto comprensibile. Cominciavo a muovermi. E nel contempo a tremare.
Avevo paura di quel che avrei potuto scoprire. Mi avvicinavo. Più diminuiva la distanza dalla bionda col giubbetto rosso (lei per come me la ricordavo da intera), più aumentava il tremore. E più aumentava il fragore. La paura che si trasformava in terrore, logico. Ma il terrore in cosa potrebbe trasformarsi? Lei, annunciata da mille schegge di carne e di osso dilagate sull'asfalto, tanto che dovevate cominciare a fare lo slalom. Lei, un groviglio rossastro che non capivi più dove finiva il giubbetto e dove iniziava l'interno di un corpo rovesciatosi all'esterno. Lei, un fantoccio che sfidava le leggi anatomiche della mobilità articolare. Il gomito destro che descriveva un angolo diametralmente opposto al suo naturale. Il torso al contrario, le gambe coricate da un lato, la testa ad angolo acuto sul collo. Mucchio umano su una pozza rossa. E, quando mi ritrovavo a un metro da tutto questo, lei che si alzava e che ringhiava. Voleva mordermi. Appena morta e dilaniata, si era risvegliata. Lasciai andare per un po' la cosa nel dimenticatoio. Poi, nel mare di incubi che il mondo esterno mi proponeva in decine di varianti estreme e inquietanti, giunsi al quarto paziente che mi riproponeva in studio, sdraiato tremante sul lettino, l'incubo di una donna investita dalla propria auto che si rialzava maciullata com'era e ti si avvicinava come uno zombie di Romero (già, quando c'illudevamo che si trattasse soltanto di cinema...). Allora ebbi un'intuizione che lì per lì, si perse per effetto del precipitare degli accadimenti. La giudicai un'idea strana, per non dire bizzarra, allora, ma, alla luce di quello che successe poi, dimostrava un suo fondamento. Ce l'aveva ancora. Dieci anni dopo. Gli incubi si replicavano. Come un virus. Io ne conoscevo solo quattro (cinque in quanto conteggiavo anche il mio...) perché tanti avevano ritenuto di parlarne. Ma chissà quanti erano in realtà? Già. Me ne rendo conto. Quanto c'è di medico, di scientifico, in un discorso del genere? Però pensateci un po'. Forse l'incubo della ragazza zombie era pane per i denti di qualche astrofisico. Se ogni pezzetto di materia si portasse dietro il suo carico di leggi quantistiche, questo conferirebbe a qualsiasi oggetto proprietà particolari, la prima delle quali potrebbe essere una specie di virus che infetta la materia stessa. Io allora credetti che la chiave per comprendere il fenomeno assurdo dell'incubo condiviso si trovasse proprio dentro il meccanismo di proiezione dell'immagine della ragazza nel momento dell'impatto. Per quanto io stesso non ne mastichi molto, cercherò di essere il più chiaro possibile. Che cos'è la realtà del mondo per la fisica quantistica? Niente di più che una serie di incidenti di percorso. Se crediamo alla quantistica, il mondo è nelle mani di quelle “onde” che sono state chiamate onde di probabilità. Ogni tanto una di queste onde "collassa", e allora, e soltanto allora, succede qualcosa (le quantità fisiche assumono dei valori osservabili). La sequenza di quei "qualcosa" costituisce la realtà percepita dall'osservatore.
La ragazza dell'incubo fu uno di quegli incidenti di percorso, un virus collassatore in grado di replicare tutto quanto è misurabile dall'esperienza e dall'osservazione. Ma nella quantistica la replica implica che tutti i possibili futuri si verificano tutti assieme. In ogni secondo l'universo si divide in miliardi di altri universi, uno corrispondente a ogni possibile valore di ogni possibile quantità che uno potrebbe misurare. Era questa la teoria di un ricercatore che si chiamava Hugh Everett: se qualcosa può succedere, allora succede... in qualche universo. Una copia di me esiste in ogni universo. Io osservo tutti i possibili risultati di una misurazione, ma lo faccio in universi diversi. Ma il collasso crea una controindicazione: gli universi paralleli si aggregano e comunicano attraverso porte percorribili nei due sensi di marcia. E questo crea un fenomeno di percezione che è stato battezzato 'coerenza quantistica', ovvero la realtà è al contempo l'insieme di tutti gli universi paralleli intercomunicanti e la summa di tutti gli 'incidenti' di cui sopra. Certo, non ci può essere chiaro di come faccia un mondo classico, fatto di di oggetti e forme e confini e pesi e altezze, a emergere da un mondo quantistico, fatto soltanto di onde e di probabilità... Ma, se ci pensate bene, questa meccanica virale della materia spiega non solo tutti gli incubi collegati ai presagi che hanno annunciato l'evento, ma pure tutta una serie di enormi misteri del nostro felice tempo passato, dal Triangolo delle Bermude a quel fenomeno sempre più in espansione allora dei missing people. A causa dei collassi e degli incidenti a catena che formano la realtà, le porte tra gli universi rimangono sempre aperte. Imboccarle è un attimo subliminale. Una ragazzina che non torna a casa in questo universo torna a casa in un altro. In quest'universo abbiamo dei genitori che piangono la sua scomparsa, nell'altro non è successo niente però la figlia è cambiata in modo incomprensibile... Incidenti. E allora, se posso metterla così, che cosa successe il giorno dell'evento? Un incidente. E poi, a catena, null'altro che un'infinita serie di incidenti che si replicarono in continuazione. Perché qualcuno li aveva sognati. E poi tanti continuavano a sognarli. Ogni sogno innestava un virus collassatore. Innestava e reinnestava. Propagazione. Contagio globale. Invece di attaccarci la sifilide, ci attaccammo, in chissà quanti, il sogno della ragazza-zombie. Ed eccola, dopo dieci anni, ritornare. Oltre la porta della baita Stregona. Come il figlio della protagonista di Zampa di scimmia. Inghiottito dall'ingranaggio di una macchina e fatto a pezzi. Morto. Perciò zombie. La madre urla di dolore e formula un desiderio: rivuole suo figlio. Cala la notte e i pezzi del corpo del figlio. Piccoli mucchietti di carne insanguinata ballonzolano sulla scala. Una mano tagliata si arrampica su per la parete della porta e bussa con tutta la sua forza, un colpo, così leggero e furtivo da essere appena percepibile. Dentro casa la madre rimane immobile, seduta sul letto e senza respiro, fino a quando il colpo si ripete. Allora si volta verso il marito e urla, sollevandosi «Che cosa è?» «Un topo», le risponde l'uomo con voce incerta, «un topo. Mi è passato davanti sulle scale». Ma un nuovo colpo energico rimbomba per tutta la casa. «E' Herbert!», la donna grida il nome del figlio. «È Herbert!» Si precipita alla porta, ma il marito le si para dinanzi e le impedisce di aprire. «E' il mio ragazzo... è Herbert!», urla lei, dibattendosi. «Perché mi trattieni? Lasciami andare! Devo aprirgli la porta!» «Per l'amor di Dio, non lasciarlo entrare», esclama il vecchio tremante. «Hai paura di tuo figlio!», strilla la vecchia, lottando per liberarsi. «Lasciami andare. Vengo, Herbert, vengo!» Un altro colpo, un altro ancora. Con una mossa improvvisa la vecchia si divincola e si precipita fuori dalla stanza. Il marito la segue sul pianerottolo e la chiama con voce straziante mentre corre giù per le scale. Sente il tintinnio della catena che viene tolta, il rumore del catenaccio che scivola adagio dalla sua piastra. Allora lui urla: «NO! QUELLO CHE C'E' FUORI NON PUO' ENTRARE!» Mi svegliai di colpo. Tanto per cambiare avevo sognato. Uno dei tanti incubi post-Evento. Le mie folle ipotesi sul virus collassatore. I film di Romero e un vecchio racconto letto da ragazzino. Ma adesso non si trattava di un incubo. Qualcuno sul serio stava tambureggiando alla porta della baita. Qualcosa di gelido, di ancor più gelido della temperatura esterna di molto sotto lo zero, si stava infilando da sotto la porta per invadere il mio spazio salvifico. Il mio rifugio sui monti, a quasi tremila metri d'altezza, incastonato in un anfratto oscuro e protetto da rocce aguzze e riparatrici. Ai tempi normali una baita per escursionisti con un nome comico, la Stregona, che oggi suona un po' sinistro. Quassù, allora, ci arrivai per intuizione e per un equilibrato mix tra il colpo di genio e quello di fortuna. L'asmatico SUV, con l'ultimo pieno di diesel, riuscì ad arrampicarsi sin dove poteva. E poi ancora un terribile pezzo di strada in pendenza, roba per escursionisti esperti, ma la disperazione è in grado di trasformarti in qualcosa o in qualcuno di non imitabile in tempi normali. Per forza di cose pregresse sapevo dell'esistenza del rifugio e che la baita non era facilissima da scovare. E, soprattutto, che era ben difendibile, data la sua posizione strategica. Il posto era appartenuto a quell'avventuriero scavezzacollo di mio fratello che lo aveva comperato quattro anni prima dell'Evento, confidando in un investimento lucroso. Sei mesi dopo la Comunità Montana della Val Brembana aveva deviato il percorso degli escursionisti per ragioni che riguardavano la friabilità di una certa zona rocciosa. A farla breve, la baita Stregona era rimasta tagliata fuori dal sentiero e il frangente era stato aggravato dalla costruzione nuova zecca di un rifugio prefabbricato più a monte. Quello che non sapevo, grandissima botta di culo in un mare di sfiga, era che la baita era dotata di generatore eolico da 500 watt. Ovvero, funzionava con il vento e lassù il vento era l'unico elemento che non mancava mai. Se le folate raggiungevano velocità pericolose, subentrava in automatico un meccanismo per limitare la velocità di rotazione delle pale di alluminio. Installato una decina di metri più in alto rispetto alla Baita, il generatore raccoglieva l'energia cinetica e la convertiva in elettricità compatibile con il sistema elettrico predisposto da Nicola. Nicola, mio fratello. Le batterie per fortuna erano del tipo autoricaricabile e, sempre per fortuna, il meccanismo del generatore comprendeva che, all'aumento della velocità dell'aria, aumentava la potenza in uscita dell'apparecchio, diminuendo quindi il prelievo di energia dalle batterie. Per di più, se il generatore produceva più energia di quella peraltro esigua che mi serviva, l'elettricità supplementare veniva immagazzinata nelle batterie stesse per poter poi essere riutilizzata. Insomma, senza essere un tecnico, dato che ero un esploratore delle praterie della psiche prima dell'evento, fui vittima felice di una botta di culo in un mare di sfiga. Per il momento non vi tedio con quanto accadde (o non accadde) in dieci anni di solitaria vita alpina. Adesso non c'è tempo. Come già scritto, qualcuno o qualcosa tambureggiava alla porta. Mi alzai dal giaciglio. La luce che filtrava dalle finestre sbarrate mi stava indicando che il giorno, illividito persino a quell'altezza, era iniziato da circa tre ore. Afferrai il machete (più tardi vi spiegherò le ragioni per cui possiedo un machete) e mi avvicinai all'uscio. Non avevo mai avuto problemi con quelli. Perché? Semplice. Fino alla baita non si erano mai spinti. I mangiamorti, ammesso che fossero ancora in circolazione (tra poche righe sarò più chiaro sul dubbio in questione...), sembravano patire le escursioni e prediligevano la pianura. E i pochi abitatori della montagna, quelli che sapevo essere vivi ai tempi della normalità, erano spariti. Dissolti. Chi era stato colpito dal morbo era attratto inesorabilmente dal basso, dal fondo valle. Lo avevo verificato sin dal primo, indimenticabile giorno.
Eppure avevo sentito benissimo. E con il cervello ci stavo ancora. Mi allenavo per quello: le escursioni attorno alle vette moltiplicano i neuroni, è ancora un dato scientifico inoppugnabile. Tambureggiare, esatto. Lo può fare chiunque con due dita su una qualsiasi superficie liscia. Provateci, come se picchiaste sopra una percussione, e otterrete quel rumore. Udito distintamente due volte. La prima ti puoi sbagliare, perché c'è ancora di mezzo la memoria onirica della zampa di scimmia. Ma la seconda no, perché è la verifica da sveglio della prima condizione. Non mi ero sbagliato. Non mi sbagliai mai in tutti quegli anni. Che credo proprio siano stati dieci, giorno più mese meno. Perché, quando arrivai quassù, trovai un bel calendario di donne nude appeso alla parete di fianco a un orologio a cucù e la prima volta che festeggiai l'ultimo giorno dell'ultimo mese (buon capodanno, Terra!), non potei far altro che iniziare a riciclarlo, correggendo con un pennarello (fuggii con uno stock di pennarelli nello zaino e ne esistono ancora un paio funzionanti), ogni volta che ricominciavo da capo con l'anno. Si è inaugurato il decimo riciclaggio a gennaio, non so quanti mesi fa. Sì, scusate la forma, l'uso dei tempi che si accavalla, presente e passato remoto. Non ci sto più tanto con la testa. Quel giorno però ci stavo alla grande. Vivere a quell'altezza è ossigenante e trasmette energia. Avevo 37 anni al momento dell'Evento. A 47 mi sentivo ancora un pivello. Insomma, uscii con piglio minaccioso e decisi a fottere col machete qualsiasi cosa, bestia o umanoide si avvicinasse con male intenzioni. Nulla, come ho già detto. Eh, no, una spiegazione esisteva. Io lo sapevo. Lo so. Girai attorno alla baita con circospezione. Soprattutto per non cascare un'altra volta nei miei liquami. Lo scarico esterno che andava a disperdersi in un rigagnolo d'acqua scaturente dalle rocce da tempo era bloccato. Quindi mi aggiustavo con la nota tecnica del cesso siberiano che lascio alla vostra immaginazione. Comunque lì attorno non si vedeva e non si udiva niente. A parte il vento. E allora? Quando regnava la normalità, prima del Suono e delle Cose, facevo lo psicologo. Il cervello e i poteri illimitati della mente costituivano il mio pane, il companatico e le mie passioni (altre ce ne furono, ma che senso ha elencarle qui?). Voglio solo arrivare a dire che praticavo ancora il mestiere persino a dieci anni dall'Evento, paziente me stesso e il vuoto pneumatico e assordante che mi assediava da ogni punto cardinale. Come ho già detto, gli incubi ebbero la loro maledetta importanza nella genesi della storia. Annunciavano il Suono. Sia i miei che quelli dei miei pazienti. Il mio battesimo – sperimentato molto prima di quello della ragazza-zombie sull'autostrada –, dopo tutto quel tempo, si ritrovava ancora impresso nella mia mente. Ergo, il primo era già un incubo collassatore. E cominciava così: mi trovavo a camminare su una spiaggia deserta. Mi avvicinavo all’acqua mentre il vento prendeva a soffiare forte. Il cielo era pieno di nuvole che non mi facevano vedere nulla. Nuvole orrende e terrificanti, da quadro surrealista alla Salvador Dalì. Che di tanto si trasformavano in occhi giganteschi. Prima amavo il mare in tempesta così come amavo le bufere in montagna. Due condizioni climatiche, analoghe per quanto antitetiche, che mi regalavano un senso di esaltazione. Di solito mi sentivo bene, come a casa. Non affatto così, in quell'incubo. Del resto era un incubo. Mi sentivo agitato, stordito, atterrito. Ombre scure si stavano avvicinando dal mare, ma proprio quando avevo preso la decisione di entrare nell’acqua gelida per avvicinarmi e vedere meglio, il suono assordante squarciava il cielo. La terra tremava e gli occhi ciclopici scomparivano per lasciare il posto a una tavolozza color pece. Iniziavo a tremare e a piangere come un bambino. Perché la spiaggia, di colpo, non era più deserta, ma colma di persone. Persone? Una folla silenziosa. Occhi privi di vita. Denti affilati. Volti scarnificati. Mi svegliavo gridando. Con tutto il fiato che avevo in corpo. Sino a quel giorno, il giorno del tamburellare alla porta della baita, gli incubi post-Evento non avevano cessato di perseguitarmi. Sempre più di rado, d'accordo, ma comunque mai estinti. Infatti avevo appena sognato la Zampa di Scimmia. Però non so come dirvela... Da un po' di tempo era in atto una sorta di mutazione onirica. Era come se non mi appartenessero, come se li sognasse qualcun altro. E io fossi l'antenna che captava. Negli ultimi tempi, spesso mi arrivavano immagini. Come da uno schermo televisivo posto davanti a me. Cioè, non stavo dentro il sogno. La mia interpretazione professionale, da psicologo: qualcun altro sognava e in questo modo inconsapevolmente comunicava. Quindi non ero solo lassù. Lassù e sul pianeta, per quel che ne sapevo. L'ultimo flash, molto chiaro: una figura incappucciata che tendeva le braccia - braccia orribili, un ambiente esterno con un sole fetido che emanava una luce quasi inguardabile, la figura che dondolava e mi faceva venire la nausea. Chi cazzo era? Cosa significavano quelle immagini? Beh, tra un po' ne riparliamo. (il racconto continua nella prossima puntata di Yesterday Was 2012) diritti riservati riproduzione vietata © Danilo Arona 2011
Nella prossima puntata di Yesterday Was 2012 la nuova "location" impossibile, dove sarà puntato il binocolo magico di Daniele Serra, sarà Praga, mentre potremo continuare a leggere il racconto di Danilo Arona "Il Collassatore". L'appuntamento è per il 29 ottobre. Non mancate!
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