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“Arriva lo straccivendolo!”

Creato il 04 maggio 2010 da Tigella

rag and bone man foto di suzienewshoes

Dopo un lungo silenzio cerco di riannodare i ricordi in tema di rifiuti della mia infanzia postbellica, nella periferia industriale di Genova.

Sono partito dal Tetra Pak per ricordare l’uso ed il sapiente riuso che si faceva della carta: essa non era però l’unico materiale – e neppure il più significativo – oggetto di risparmio e riutilizzo.

Nella micro-economia del quartiere svolgeva un importante funzione lo “stracciaio” (strassée, in dialetto genovese), così chiamato perché gli stracci erano il prodotto più tipico del suo commercio.

Il deposito dello stracciaio esercitava su noi bambini un grande fascino: la zona coperta accoglieva cumuli di stracci, divisi secondo un criterio per noi insondabile, mentre l’ampio cortile era occupato da mucchi di vetro e di rottami di ferro, alluminio, rame ed altri metalli. La carta non aveva “mercato” essendo, come già detto, oggetto di riuso domestico (in senso lato…).

Le “merci” venivano pesate con sistemi non so quanto attendibili: le grandi quantità su bilance a piattaforma e le piccole con stadere o, nel caso di medio-piccole balle di stracci, con dinamometro a gancio.

Ogni quartiere aveva il suo stracciaio, parte di una più ampia organizzazione articolata in grossisti e dettaglianti.

Egli si recava anche a domicilio: passava periodicamente sotto le nostre case lanciando il richiamo “Strassée… strasse, buttigge…” (stracciaio… stracci, bottiglie…), al quale accorrevano le massaie trasportando le poche cose inutili di cui avevano deciso di privarsi, per un modico compenso.

Anche altri importanti protagonisti della micro-economia di quartiere (l’ombrellaio, l’arrotino, il calzolaio, come pure i venditori di prodotti alimentari e, quand’era stagione, di gelati ed anguria…) svolgevano periodicamente “a domicilio” la loro attività… quando arrivavano nella nostra piazza, annunciati dai loro coloriti richiami, assieme alla loro specialistica sapienza portavano una ventata di allegria.

Già, la sapienza specialistica: perché quella “ordinaria” era patrimonio di ogni famiglia.

In tutte le case vi era qualcuno in grado di provvedere alle normali riparazioni di qualunque oggetto, perfino dei primi ferri da stiro elettrici.

Quando mio padre smontava quel primitivo elettrodomestico per sostituirne la resistenza, la parte più delicata, ricordo di come ero affascinato dai foglietti di mica trasparente che ne costituivano l’isolamento.

Tutte le massaie, poi, sapevano rammendare, ricucire, adattare capi di vestiario.

Allora tutti i ragazzi nell’età della crescita indossavano pantaloni alla “zuava”, trattenuti al fondo da un elastico: quando erano lunghi (appena comprati) avevano un ridicolo “sbuffo” che diminuiva via via che si cresceva, fino ad annullarsi e dare ai pantaloni un patetico effetto “stirato” che suggeriva la necessità di cambiarli.

Nel frattempo le mamme avevano continuato ad adeguare il giro-vita, recuperando la stoffa in più appositamente lasciata dal confezionatore all’interno dei pantaloni.

L’”usa e getta” era una categoria di pensiero estranea alla nostra società… ma la modernità era in agguato e, da lì a poco, avrebbe fatto irruzione nelle nostre vite sotto l’aspetto lucido, policromo e ammiccante della plastica: “… signora, guardi ben che sia fatto di Moplen!”.

Ma di questo parleremo la prossima volta…

Foto di Suzienweshoes

Foto in prima pagina di Neri


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