27 gennaio 2016: Giornata della Memoria. Dopo tanti discorsi ascoltati e letti, un pensiero e una riflessione attraverso gli occhi dei bambini vissuti nei campi di concentramento. Costretti a subire un’atroce condizione di sofferenza, fame, privazioni, per alcuni di loro lontananza dalla famiglia, riescono comunque a giocare, disegnare fiori e farfalle, scrivere parole di speranza in un mondo migliore. Di una lucidità disarmante, evocano la realtà della morte senza mai nominarla, in un contrasto, che fa sobbalzare, tra il profumo delle rose, la dolcezza infantile e un destino ormai tracciato.
Un piccolo giardino,
Fragrante e pieno di rose.
Il viale è stretto,
Lo percorre un piccolo bambino.
Un piccolo bambino, un dolce bambino,
Come quel fiore che sboccia.
Quando il fiore arriverà a fiorire
Il piccolo bambino non ci sarà più.(Franta Bass, nato a Brno nel 1930, deportato nel lager di Theresienstadt -Terezín nel 1941, morto ad Auschwitz il 28 ottobre 1944)
Esprimono il sogno di un futuro senza armi in un toccante e, oserei dire, quasi filosofico “perché non subito?”
Vorrei andare sola
Vorrei andare sola dove c’è un’altra gente migliore,
in qualche posto sconosciuto
dove nessuno più uccide.
Ma forse ci andremo in tanti
verso questo sogno,
in mille forse …
e perché non subito?(Alena Synková , 1926 sopravvissuta)
A questi bambini sono state rubate infanzia, spensieratezza, innocenza; loro malgrado, hanno imparato tristezza e gravità, conosciuto il Male incarnato in esseri senza scrupoli, vittime perché nati in un momento storico sbagliato, in un posto sbagliato, in famiglie perseguitate dalla follia umana.
Il ghetto di Terezin, campo di concentramento di Theresienstadt in Repubblica ceca, credo sia noto a tutti. Dal 1941 al 1945 furono rinchiusi 140.000 prigionieri, ne morirono 35.000. Tra i deportati, se ne salvarono solo poco più di 3000. E i 15.000 bambini, neonati compresi? La maggior parte finì nelle camere a gas di Auschwitz; dopo la guerra non ne sopravvissero molti, nemmeno un centinaio.
Eppure non sono volati nel vento; del loro breve passaggio sono rimaste tracce emozionanti, disegni o poesie, testimonianze ora riunite nel museo di Stato Ebraico a Praga, esposte anche nel museo di Terezin e, in parte, A Yad Vashem, Istituto delle vittime dello sterminio a Gerusalemme.
La parola, l’arte, sopravvivono anche al Male, non solo al Tempo, ricordandoci che la memoria non si commemora un giorno né solo per poche ore, ma si esercita. Ecco, quei bambini danno concretezza al ricordo, materializzano un passato che sarà un costante presente continuo. Per non dimenticare mai.
Guarderemo, leggeremo e potremo idealmente sempre salutarli con un “Arrivederci ragazzi, a presto!”, le ultime parole pronunciate da Padre Jean nella scena che conclude Au revoir les enfants di Louis Malle, splendido film del 1984 cui seguì l’omonimo romanzo nel ’93, vincitore di numerosi premi tra cui il Leon d’Oro a Venezia, il Premio César e il David di Donatello. Una storia ambientata nella Francia della Seconda Guerra Mondiale durante l’occupazione tedesca, i cui protagonisti sono ragazzini che vivono e studiano in un collegio di religiosi. Vicende normali, tipiche della quotidianità adolescenziale: amicizie e litigi, legami fraterni come quello tra Julien e l’ebreo Jean, ripicche, vendette, rabbia come il gesto del giovane inserviente Joseph, povero e storpio e per questo spesso deriso che, scoperto a rubare per vendere al mercato nero, viene licenziato e, mosso dal rancore, avvisa la Gestapo della presenza di ebrei nel collegio. Sullo sfondo una disciplina fatta di messe mattutine, rigore nell’impegno scolastico, terrore scandito dalle urla delle sirene prima dei bombardamenti.
Una comunità, una sorta di microcosmo sociale del tempo.
I tedeschi arrivano, arrestano i bambini ebrei e Padre Jean accusato di averli nascosti e protetti.
Il saluto finale è struggente: lo sguardo di Julien non abbandona mai Jean, il fratello ideale che avrebbe sempre desiderato poiché completamente diverso dal suo, né il prete, il padre che in realtà non ha mai avuto accanto a sé, né gli altri compagni, consapevole che quel “au revoir” è in realtà un “adieu”. Mentre la camera insiste sugli occhi sgranati, increduli e spauriti di Julien, una voce fuori campo – lui uomo – racconta che Padre Jean morirà a Mauthausen e gli amici ad Auschwitz.
Pellicola non recente, bellissima e per nulla datata.
L’orrore della violenza fa improvvisamente diventare adulti, si appropria della parte migliore della vita, fa scavalcare anni e periodi dell’esistenza che non si recupereranno più.
Oggi? Forse dalla Storia non abbiamo imparato molto, o abbiamo trattenuto il peggio. Stiamo facendo poco o nulla affinché quello che è stato non sia mai più.
Ah, già! Aspettiamo che diventi memoria per un’ulteriore affranta commemorazione.