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ARTE CONTEMPORANEA, CATEGORIE ESTETICHE – di Cristina Palmieri per MAE Milano Arte Expo

Creato il 25 gennaio 2013 da Milanoartexpo @MilanoArteExpo

arte contemporanea quotazioni e mercato dell'arteARTE CONTEMPORANEA, CATEGORIE ESTETICHE – di Cristina Palmieri per MAE Milano Arte ExpoAbbiamo già sottolineato come la caratteristica peculiare dell’arte contemporanea sia la complessità. Complessità che certo è espressione dei tempi, di cui l’arte non può che farsi attestazione. Ormai da decenni i codici culturali si evolvono molto velocemente, sempre meno autonomamente gli uni dagli altri, quanto piuttosto in una continua contaminazione che coinvolge ed avvicina la pluralità di linguaggi e repertori comunicativi della società odierna, i quali – in un’incessante osmosi – diventano permeabili gli uni agli altri, rendendo sempre più articolate analisi che vogliano non limitarsi all’ambito estetico, ma che cerchino di trascenderlo per farsi anche paradigmi interpretativi dei modelli  intellettuali, sociali e di costume che ad essi sottendono. Ancor più difficile risulta cercare di interrogarsi sul loro “valore” etico, in un’epoca in cui troppo sovente si parla di crisi valoriale, che diviene le più volte quanto intenzionalmente gli artisti vogliono testimoniare attraverso il loro operare.

Del resto le esperienze dadaiste, e più ancora quelle del periodo Neo Dada, per passare poi attraverso le provocazioni di artisti come Duchamp e  Piero Manzoni, o quelle  della Pop Art e del Nouveau Réalisme, si posero come preciso intento quello di negare i canoni tradizionali dell’estetica.  E’ indiscutibile che da allora sia stato sempre più difficoltoso distinguere tra ciò che può essere definito opera d’arte e quanto invece molti hanno “etichettato”  come scarto degradato, eccesso, affermazione di un cattivo gusto imperante che impone il non-valore e la volgarità. >>

E’ un dilemma che coinvolge il concetto stesso di arte, spalancatosi nella stagione delle avanguardie, soprattutto con l’avvento del concettualismo e dell’ interesse verso la poetica dell’oggetto, anche all’interno di quell’arte informale così denigrata dagli artisti pop, ma che invece, almeno a parere di chi scrive, rappresenta una delle stagioni migliori del Novecento. Basti pensare ai sacchi di cui Alberto Burri faceva uso nelle sue pitture, ai frammenti di pietre e vetro di Lucio Fontana, ai pezzi di ferro rielaborati nelle creazioni di Ettore Colla ed anche ai collage e agli assemblage di Enrico Baj.

Milano Expo, Enrico Baj - I funerali dell'anarchico Pinelli -  1972

Enrico Baj – I funerali dell’anarchico Pinelli – 1972 – 620 x 1200 cm – installazione comprendente un pannello in legno multistrato 4 sagome una finestra una pedana inclinata coperta di passamanerie – acrilici e collage su tavola – collezione Fondazione Marconi

 

Le ragioni che sottendono alle ricerche che hanno caratterizzato le avanguardie storiche non sono sempre le medesime. Hanno radici differenti. Certo quanto le accomuna è quella matrice dissacrante che attraversa quasi tutto il secolo scorso. L’arte si fa denuncia, provocazione, ironia, gioco, demistificazione dei linguaggi massificanti e massificati, testimonianza del culto dell’evento e della spettacolarizzazione, della velocità e del consumismo, di tutti quei paradigmi – perciò – che rappresentano la cifra caratteristica del moderno.

Se infatti Duchamp, nel proporre l’orinatoio, piuttosto che Manzoni nell’ideare il celeberrimo contenuto della sua fortunata “scatola”, fossero stati mossi da presupposti poetici o nostalgici, e non invece da sollecitazioni intellettuali, non rivestirebbero, nell’ambito della storia dell’Arte, quell’importanza e quel ruolo che universalmente è loro riconosciuto.

Marchel Duchamp – Orinatoio Fontana – 1917

Marchel Duchamp – Orinatoio Fontana – 1917

Con i movimenti sopra citati accade che gli oggetti, addirittura gli scarti di utilizzo quotidiano, vengano consapevolmente inglobati nell’arte, utilizzati secondo inedite modalità comunicative, investiti di nuove potenzialità semantiche. In alcuni artisti – come Duchamp – prevale il concettualismo, l’assunto che a creare l’arte e a fare l’artista sia in fondo l’idea che sottende all’opera. La volontà è quella di contestare, stravolgere i paradigmi culturali imperanti, l’estetica borghese di celebrazione del bello.  In altri, come i neo-dada americani, vi è piuttosto un atteggiamento cinico, beffardo, quasi ostentatamente disincantato nel proporre l’accostamento di differenti e diversi materiali moderni, di soggetti assunti dall’immaginario collettivo, con la precisa volontà di sovvertire il concetto tradizionale di opera d’arte, nonché di denunciare il dilagante consumismo che sempre più va affermandosi nella cultura industriale. Tutto si “consuma”, nulla rimane. A questo archetipo si ricollega, sostanzialmente, anche l’esperienza della Pop Art, sebbene declinata con intenzioni differenti nel panorama americano e in quello inglese.

Diverso l’intento – come accennato – che accompagna artisti italiani quali Burri, Baj, Fontana. Nelle loro opere emerge una vera e propria “poetica dell’oggetto”, percorsa da una indagine artistica più genuina (fortemente legata alla tradizione dell’Informale) e viscerale, in cui a prevalere è un certo umore esistenzialista, attraversato da quel nichilismo che vuole implicitamente mostrarci come anche la vita – non solo l’arte –   talvolta sia pervasa dal non-senso.

Tentiamo allora di comprendere come, sullo scorcio di simili esperienze, che – pur discusse e per taluni discutibili – hanno certamente ancora un fondamento di ricerca che ne attesta l’unicità e la qualità, si sia aperta la strada ad un’estetica da alcuni definita “del nulla” e quali ripercussioni abbia avuto questo fenomeno a livello di mercato. Del resto, se pur secondo attitudini e con finalità differenti, sia Duchamp che Manzoni hanno dimostrato – mezzo secolo fa – come a contare, anche nel mercato, non sia più la qualità dell’opera, quanto piuttosto lo spazio che occupa. L’inventore delle scatole di Merda d’artista (1961), il quale cercò di far comprendere come  anche un’opera artistica potesse trasformarsi in bene di consumo, pronto per essere posto sugli scaffali di un supermercato e venduto, ebbe una lungimiranza avveniristica. Forse si stupirebbe egli stesso qualora, girando per fiere o gallerie, vedesse a quali prezzi vengono  proposte, ancor oggi velate di quell’aura di mistero che troneggia quando il banale è eletto a “non convenzionale”. Poiché forse qui sta il controsenso.

Piero Manzoni – Merda d’artista – 1961 – 90 esemplari

Piero Manzoni – Merda d’artista – 1961 – 90 esemplari

Quanto non possiamo negare è che  –  come ebbe a sottolineare più volte Gillo Dorfles – la rivoluzione culturale prodottasi negli anni quaranta e cinquanta, che allora apparve come “una vittoria sul classismo marxista o un affrancamento della piccola borghesia “acculturata” rispetto all’antica ignoranza d’un proletariato agricolo”,  in realtà abbia prodotto un globale appiattimento e livellamento culturale, di cui l’arte non può che farsi portatrice.

Per illustrare e catalogare meglio tale fenomeno ci vengono in aiuto alcune  “categorie” con cui sono stati definiti alcuni “prodotti” dell’arte contemporanea, le quali ben descrivono parte delle differenze intercorrenti tra le svariate attestazioni che di essa ci circondano e – talora – disorientano.

Sono quelle, per esempio, di trash, kitsch, pop. Molti critici e storici  da tempo si interrogano su questi fenomeni che caratterizzano non solo l’arte, ma la cultura contemporanea in genere. Gli eccessi, la volgarità, la riproducibilità quasi coatta del banale, fino a farlo  divenire feticcio, la permeabilità e commistione – come accennato inizialmente – fra i linguaggi comunicativi, la nuova “spiritualità” materialista tipica del nostro capitalismo, fondano un’estetica nuova, condivisa e apprezzata senza la necessità di una solida codifica, perché intrisa di quella cultura visiva a cui i mass-media ci hanno assuefatto.

Il paradosso che la attraversa  deriva dal fatto che a qualificarla sia un linguaggio superficiale che però scaturisce da  una grammatica e da una semantica invece assai complesse, perché complesso è il mondo che ci circonda, anche quando sembra caratterizzato dall’appiattimento culturale, valoriale, ideologico.

Non è semplice perciò distinguere tra ciò che ha qualità da quanto invece ne è privo, tra ciò che ha ancora senso – in quanto sfida ad un establishment culturale – da quello che invece è un ennesimo epigono di schemi concettuali triti e ritriti, al punto che persino certe provocazioni non paiono nemmeno più sovversive.

Gli epigoni post-duchampiani ci hanno abituati ad opere destabilizzanti. Animali in formalina, sculture che riproducono uomini o animali squartati, escrementi reali (ben diversi dalla provocatoria “idea” di Manzoni), installazioni al limite della stramberia; una produzione artistica non solo priva di regole, ma basata sull’improvvisazione, pescando nel “cestino dei rifiuti” e offrendo le più disparate manifestazioni di quella che, non a caso, è stata definita cultura del “TRASH”. Ma è possibile che alcuni vedano rifiuti dove altri invece vedono arte? Certe manifestazioni rimarranno nella storia dell’arte o, piuttosto, nella storia del costume?  Ed ancora, il problema è solamente estetico o coinvolge anche la ben più profonda riflessione sull’ etica dell’arte?

Non possiamo infatti banalmente liquidare determinate “formule espressive”  come semplici espressioni di cattivo gusto, anche perché ormai il fenomeno non è più marginale. Tutti noi, frequentando musei, gallerie, mostre, ci rendiamo conto di come nel tempo abbia acquisito un interesse via via crescente e sempre più centrale all’interno della sperimentazione artistica.

E’ infatti per questa loro pregnanza che il “Trash” e il “Kitsch” sono oggi materia di studi molto dibattuta. Autorevoli personalità, come Clair, Fumaroli, Žižek (di cui è imminente l’uscita, per Mimesis,  di un saggio dal titolo emblematico “Trash sublime”) hanno  spesso  veementemente  denunciato  quella  che  Fumaroli  medesimo  ha   definito l’ “impostura dell’arte contemporanea”, sottolineando come certuni celeberrimi e celebrati personaggi possano essere letti come i rappresentanti di una deriva che trasforma l’arte – e il mercato dell’arte – in una forma esibizionistica d’intrattenimento, dominata dal denaro, dal marketing e  da un  processo sempre più preoccupante di inflazione della qualità.

Per alcuni ci troviamo di fronte all’ “apocalisse del gusto”. Dovremmo però cercare di operare alcuni distinguo. Forse ci saranno d’aiuto per arrivare ad una nostra conclusione riguardo al problema, articolato come articolata è la contemporaneità che viviamo, dal momento che, personalmente, non amo gli scenari apocalittici. Raramente aiutano a pervenire davvero ad un’analisi profonda di quanto ci circonda e rischiano di condurre ad un bigottismo oscurantistico della cultura.

In primis è bene sottolineare come Kitsch e Trash (accanto a Pop) non siano categorie sovrapponibili o assimilabili, quanto piuttosto espressioni diverse, se pur contigue, di un più vasto repertorio espressivo, comunicativo e linguistico che, come accennato, costituisce la peculiarità del nostro tempo sociale e culturale. Sono perciò essi stessi termini aleatori ed opinabili, nonché molte volte affermati e rivendicati con coscienza da molti artisti. Scelgo in questo contesto di non fare nomi, ma parecchi di essi si interessano volutamente agli oggetti di utilizzo quotidiano, che divengono quasi “amuleti” del nostro vivere, raccontando la storia a cui apparteniamo. Li assemblano, come i loro maestri del secolo scorso, cercando nuove e paradossali combinazioni, sottolineando come tutto attualmente abbia un ciclo di vita talmente veloce da spiazzarci. Cercano di stupirci, ma anche di farci riflettere su quanto agiamo e su quanto invece, supinamente, subiamo. Forse ci raccontano la leopardiana “vanitas” del tutto, oppure le gozzaniane “buone cose di pessimo gusto” di cui ci circondiamo per rassicurare le nostre esistenze sovrabbondanti di oggetti e intrise di cultura Pop.

Probabilmente l’incongruenza appartiene più al mercato che agli artisti, poiché è il mercato , come abbiamo già denunciato, a trasformare tutto in marketing, a testimoniare ancora una volta che certe dinamiche peculiari del nostro oggi, ma ormai anche del nostro ieri (quello che come un castello di sabbia ci sta crollando addosso), rappresentino un circolo vizioso che tutto fagocita.

Non dimentichiamo poi che l’arte del Novecento ha avuto il merito di sacralizzare il profano, di demistificare il cult, in qualche modo, quindi, di esorcizzare le paure di un secolo che andava perdendo i parametri di riferimento che per lungo tempo avevano accompagnato l’uomo. “Dio è morto”, l’ “arte è morta”. Su queste ceneri è però, certamente, nato altro. E questo altro, nel bene e nel male, ci appartiene e descrive, quindi ci pertiene. Che senso avrebbe cibarci di un passato con reverenziale devozione per sfuggire a quanto siamo e “incarniamo” tutti, nessuno escluso?

Non tutto è ostentazione, provocazione, aberrazione, mostruosità. O forse lo è. Ma non potremmo domandarci se il problema non consista piuttosto nel fatto che, a prescindere dalle manifestazioni artistiche, sia il nostro mondo ad esporci quotidianamente a tutto questo?

Come può esserci un’estetica del bello (che poi altro non è che estetismo) se il bello non ci appartiene più e se molto di quanto ci accade intorno altro non è che sfida continua alla morale comune, affermazione di personalità narcisistiche, di violenza fine a se stessa, testimonianza di un’estetica del disgusto?

Come ebbe a scrivere Trione – recensendo per il “Corriere della Sera”  l’opera di Clair “L’Inverno della cultura” – “Lo sforzo sta non nel rifiutare «tutto» il presente, ma nel riconoscere ciò che, in esso, ha autentica forza”. Quanto ha forza è non cessare mai di credere nell’arte e continuare ad ipotizzare nuove avventure linguistiche ed espressive.

Ci occuperemo, nel prossimo appuntamento, più nel dettaglio delle categorie accennate.

CRISTINA PALMIERI

per informazioni, domande e richieste di consulenza: [email protected]

Cristina Palmieri

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MAE Milano Arte Expo [email protected] ringrazia Cristina Palmieri per il testo ARTE CONTEMPORANEA, CATEGORIE ESTETICHE e per la rubrica Il filo di Arianna dedicata al mercato dell’arte, all’andamento delle quotazioni arte contemporanea e al collezionismo.

MILANO ARTE EXPO, mercato ARTISTI E QUOTAZIONI


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