Milano Arte Expo – Studio Marconi 1979 mostra Il nuovo Contesto a cura di Flavio Caroli
Arte contemporanea: Milano mostre e documenti storici – 1979 Il nuovo Contesto a cura di Flavio Caroli allo Studio Marconi – ora Fondazione Marconi. Artisti presenti in mostra: Davide Benati, Michele Carone, Roberto Caspani, Valerio Cassano, Antonio Faggiano, Omar Galliani, Luigi Giandonato, Marcello Landi, Aldo Spoldi. Nota introduttiva di Giorgio Marconi – Da tempo pensavo a una mostra di giovani artisti italiani. Per questo ho subito accolto la proposta di una mostra di questo genere fattami da Flavio Caroli. Penso che attualmente la ricerca artistica in Italia sia molto interessante. Ci sono, esperienze che cercano di differenziarsi da ciò che le ha precedute anche se non rifiutano di mantenere certi rapporti. È una situazione complessa, contraddittoria, sicuramente non definita. Per questo penso che sia utile conoscere a fondo, e largamente, il lavoro dei nuovi. (Anche per evitare, tra l’altro, il richiudersi per lo meno prematuro degli schematismi, lo scatto, ancora, del meccanismo assurdo delle santificazioni e delle condanne irrevocabili). >
Flavio Caroli – Il nuovo Contesto
Devo deludere il lettore in caccia di sensazionalismi: nelle pagine che seguono, non sosterrò che gli artisti presentati in questa mostra sono gli unici degni di considerazione esistenti al mondo. Per diversi motivi: 1) Perché, fra molti errori, i dieci anni trascorsi hanno avuto il merito di sotterrare una certa mitologia del Protagonismo. Il protagonismo è legato a una concezione inevitabilmente stantia e idealistica dell’arte, mentre il pensiero moderno richiede analisi raccordate, ideologicamente determinate, sia per l’arte antica che per quella moderna. 2) Perché un’ideologia sempre più lontana dal piramidalismo sublimante di tipo rinascimentale, e sempre più « appiattita », come la nostra, esclude intrinsecamente il mito del genio « precoce », che del resto oggi non può essere né Raffaello né Rimbaud. 3) Perché il sensazionalismo, come insegna il giornalismo « popolare », è sempre legato alla sottocultura; così come, venendo al nostro campo, sono legati alla sottocultura i critici che lo praticano. Questa vuol essere una mostra « laica ». Una presa di contatto con una generazione e con i suoi problemi espressivi. Una scelta qualitativa sulle diverse problematiche di una situazione in fieri. Una ipotesi interpretativa naturalmente antropologica su processi immaginativi che, da molti segnali, sembrano segnare uno scarto rispetto ai cliché della generazione precedente: con sottigliezze tutt’altro che facili da decodificare. Qual è il tema di questa mostra? Un cambio di generazione.
So bene che le generazioni non cambiano ad annum, o a mostra, ma ci sono momenti nei quali elementi concomitanti — fenomeni creativi nuovi, concorrente interesse critico, « climi » derivati da eventi estranei al mondo dell’arte — segnano una frattura. L’ultima svolta sostanziale è avvenuta undici anni fa. Oggi, c’è forse da rimpiangere che l’attuale « cambio di generazione » (con la polarizzazione di interessi che inevitabilmente comporta) avvenga quando restano aperti molti conti non solo con la generazione dei quarantenni, ma con la sotto-generazione immediatamente seguente, che rischia di venire schiacciata e parzialmente trascurata. Ma forse è vero che le cose non avvengono mai a caso. È mia convinzione che le aperture di ricerca, la pregnanza operativa dell’ultima generazione apriranno, a ritroso, un ventaglio critico nuovo anche per la generazione precedente.
Non credo di essere indiscreto se dico pubblicamente che per la Biennale di Venezia ho proposto una mostra intitolata provvisoriamente « Due generazioni ». La vedrei allestita in spazi concentrici: al centro il lavoro differenziato dei giovani; dietro, e su loro stessa indicazione, la diaspora di esperienze — differenziatissime — che hanno significato qualcosa per la loro operatività. Prevedibilmente, del cambio di generazione, e del conseguente « vuoto di potere », si cercherà di approfittare. Come? Cercando di ricongelare la situazione con la vecchia logica del Protagonismo. Siamo di fronte a polarità dialettiche fondamentali: o si è idealisti in maniera obsoleta, ma facile e dura a morire, o si crede, ripeto laicamente, nell’« analisi dei processi ». lo credo che stavolta valga la pena di fare ogni sforzo per essere moderni. I protagonisti, se così tristemente vogliamo chiamarli, verranno segnalati, in poco tempo, dalla selezione qualitativa del loro lavoro. Un cambio di generazione è un evento antropologico che può essere studiato diacronicamente, ma che, al suo nascere, è più proficuamente definibile dall’identificazione — sincronica — di alcuni punti nodali. Punti nodali che, nella nascente tradizione critica sulla generazione che ci interessa, tenterò, addirittura, di enumerare.
1) LA «SPECIFICITÀ». Si è convenuto fin qui di dire che il lavoro dei giovani segna un ritorno allo « specifico ». Ma io credo che si debba argomentare con più sottigliezza, evitando le generalizzazioni. Nei suoi confini più generali, nessuna generazione ha segnato una perdita di specificità maggiore di questa. La « creatività metropolitana » del 77, quella che io ho definito « creatività marginale », l’« avanguardia di massa », i fenomeni di sado-masochismo collettivo con precisi riscontri nelle arti sia visive che teatrali, restano elementi fondanti per capire la dinamica degli ultimi anni. E non è lecito cancellarli per opportunismo settoriale. Ancor oggi, la distanza che corre fra gli 80.000 spettatori di Patti Smith e questi pittori, fra un solipsismo- di-massa sciatto, intimistico, disperato, come forse intimistica e disperata è la dimensione del nuovo « sociale », e lo sforzo delimitante di queste opere, è immensa. Cos’è accaduto, nella realtà? È accaduto che il sessantottismo si è sfarfallato in una colossale dimensione di frustrazione massificata, e il « movimentismo » endemico che ne è seguito è stato sintomo di una « vanificazione », di una mancanza. Intorno a questo nodo irrisolto, una generazione si è spaccata in due: da una parte si è avuta la scelta totalizzante, ripeto per l’ennesima volta massificante- massificata, l’istituzionalizzazione « aperta » del malessere; dall’altra parte, forse sui banchi di tetri licei artistici a un passo dalla disgregazione, si è coagulato un tentativo di concentrazione, si è intravista una strategia arginata e definita, si è pensato che — pur sempre nella dimensione del privato — la produzione di oggetti comunicativi può essere una metafora delimitante della totalità. Da ideologico il privato è divenuto terapeutico, e da terapeutico è tornato ad essere ideologico, in una strategia potenzialmente produttiva. Il filo che lega le pulsioni movimentistiche a quelle strettamente artistiche è però profondo. Esso va ricercato nelle pieghe di una sensibilità che torna a definirsi poetica; nella vasta zona dei cosiddetti « nuovi bisogni », nella ricerca di una dimensione gratificatoria allargata e sostanzialmente deideologizzata.
mostre Milano
2) SPECIFICITÀ POST ’68 e SPECIFICITÀ POST- ’77. Anche restringendo il discorso alla creatività più professionalizzata, bisogna chiarire il significato del termine « specificità ». É lecito sostenere che la generazione artistica del ’68 ha segnato una perdita di « specificità» ? Non lo credo, e penso anzi che sia ottuso e retrivo affermarlo. Con indiscutibili fallimenti e molti collaterali dilettantismi (forse inevitabili), la generazione del ’68 ha forzato i confini del linguaggio visivo per renderlo duttile e ricettivo alle nuove formulazioni ideologiche: si è mossa cioè in una dimensione di assoluta specificità, anche se si trattava di una specificità di tipo ricognitivo ed « esplosivo ». La generazione del 77 parte da promesse diametralmente opposte: tenta di ricondurre il linguaggio in argini addirittura disciplinari; è costretta, da questa logica, a porsi ex novo problemi giganteschi come quelli della pittura e dell’immagine; e in questa dimensione di assoluta devozione al « visibile» è portatrice solo indiretta di un’ideologia che si identifica d’altronde con quella del privato.
3) DEIDEOLOGIZZAZIONE. La prima spia per interpretare la problematica di una generazione va ricercata nella sua strumentazione linguistica. É un fatto che i giovani artisti ignorano quasi completamente l’uso della Testualità e della Parola. Perché? Perché la Testualità — fenomeno centrale in tutta l’arte e il sapere moderno — si incrementa in periodi di forte ideologizzazione, ciò che spiega il suo apice quantitativo nella cultura sessantottesca. Portati alla polarizzazione estrema, e naturalmente con infiniti passaggi intermedi, mi pare che i termini dialettici dell’arte contemporanea siano i seguenti: o si sceglie di operare sul linguaggio o si fa una decisa opzione per il metalinguaggio. Mentre la generazione precedente è stata ampiamente « metalinguistica », i più giovani tornano ad accanirsi, con albeggiante maturità, intorno al linguaggio. Ciò non contraddice — se mi si concede il riferimento personale — la tesi da me esposta in « Testuale » e in « Parola- Immagine », tesi secondo la quale il mondo moderno segna una gigantesca, antropologica perdita del « visibile naturale ». Nel regno del « visibile innaturale », esistono solo due possibilità: o l’immaginario si traduce immediatamente in ideologia, e allora è diretto il r i corso alla Parola; o opera sullo stesso « visibile innaturale ». Questa è la via scelta dai giovani, come dimostrano i loro testi in catalogo. Ed è evidente che una simile scelta programmatica comporta un’attitudine conoscitiva di tipo istintuale mitico invece che intellettualistico- raziocinante. La distinzione che Marcello Landi fa fra intellettuale e mentale mi sembra significativa.
4) IL « NUOVO INDIVIDUALISMO ». Pensare che siamo di fronte a un individualismo vecchio stampo, riscontrabile nel lavoro di pochi stiliti toccati dalla verità — come fa la critica fideistico-« cattolica » — è semplicemente stupido. L’individuo- artista dell’ultima generazione obbedisce a una condizione antropologica generalizzata, nella quale argina — ed è già importantissimo — il proprio margine di autonomia immaginativa. È vero che l’ideologia « sociale » sta attraversando una crisi profonda (in buona parte programmata e indotta), ma l’ideologia dell’individuo, ancorché apocalittica, risulta sempre fondata su un soggetto totalmente legato a uno « scambio » consumistico e massificato. Ammesso che abbia ancora un senso parlare di individualismo, oggi non si può pensare che a un « individualismo di massa ». Il vecchio individualismo era romantico, ingenuo, anarchico, sostanzialmente ottimista e costruttivo anche nei non pochi casi di suicidio che hanno toccato la generazione degli anni ’50. Il nuovo individualismo è sperduto, emarginato, suicida per assenza di motivazioni, basicamente e semplicemente pessimista. A questo proposito, consigliamo di leggere Baudrillard per intero (e molto criticamente).
5) PUNTO ZERO. Antropologicamente, i fenomeni che abbiamo delineato creano una svolta probabilmente storica. Sul tappeto, gli avvenimenti dal 77 ad oggi hanno completamente rimescolato le carte, che adesso sono riunite in un mazzo di ipotesi tutte da verificare. Comincia una nuova mano. Non è la prima volta che si parla di « punto zero » nell’arte del dopoguerra. Precedentemente, le spinte al rinnovamento erano fondate su modi creativi affini, su « movimenti »; oggi, esse sono determinate dalla generalizzazione di una condizione storico-immaginativa, da un complesso di fenomeni che, pur uscendo dall’ambito specifico dell’arte, ne condiziona i processi come forse non è mai avvenuto negli ultimi trent’anni. La caratteristica intrinseca di questo cambiamento, non è un « movimento », ma proprio l ‘assenza di movimenti. In generale, gli artisti dell’ultima generazione rifiutano di raggrupparsi in tendenze o accademie. Cresciuti quasi sempre isolatamente, nei teatri licei artistici di cui parlavo prima, e in climi più interessati al « movimentismo » che alla definizione di una nuova professionalità, si sono avvicinati ai trent’anni con un bagaglio figurativo bene o male già strutturato. A questo punto, chiedere loro di uniformarsi a una poetica sarebbe sciocco. Si perderebbe proprio l’elemento più interessante di questo momento, che è una piccola babele di linguaggi, utilizzati con la naturalezza del « sapere » stabilmente acquisito. È chiaro che i giovani artisti ereditano immediatamente le aperture linguistiche della generazione che li ha preceduti. In questo senso, le loro opzioni assumono un’importanza particolare: diventano una cartina di tornasole per chiarire i successi e gli insuccessi dell’arte degli ultimi dieci anni, dimostrano quali idee si sono inverate in un « sapere » generalizzato, e dove stavano invece i tentativi inerti e bluffatori. Ma è interessante questa discendenza soprattutto perché illustra il senso più pregnante, intimo, del « punto zero » che è il tema di questa mostra. Se si tratta di una discendenza immediata, non si tratta però di una filiazione diretta, quanto meno non di una filiazione per canali cromosomici privilegiati. In questi anni si è prodotta una frattura risolutiva. È f i nita una certa idea « progressiva » « vasariana », dell’arte, l’attesa messianica del Michelangelo della situazione. Oggi, non c’è una linea, una paternità, una scuola da privilegiare. Pittura e spazio ambientale, fotografia e fumetto, poverismo e concettualismo, vengono frequentati con naturalezza e l i bertà, se vogliamo anche con spirito di rapina. Passato e presente, arte egiziana e Joseph Beuys, Giulio Paolini e grafica liberty, Pratt, Pozzati e Kounellis, sono davanti ai giovani artisti come un immenso campo di esperienze da rivedere e riciclare nella nuova creatività. Non sosterrò che le loro opere siano sempre sostenute da un livello di professionalità impeccabile: talora, si vedono in trasparenza progenitori, o più semplicemente insegnanti d’accademia, abili a manipolare l’immagine, talora si intuisce che la tensione a realizzare una certa idea era più forte dei risultati raggiunti. Ma l’interesse della situazione risiede proprio in questo fuoco concentrico di tensioni: un fuoco — questo è il punto — oggettivamente nuovo. Dividerò gli artisti di questa mostra seguendo l’impostazione già utilizzata in due articoli pubblicati sul « Corriere della Sera»: gli artisti del «tempo allusivo » e gli artisti del « tempo reale ». Non ignoro che in questi « contenitori » gli operatori entrano sempre un po’ a fatica, ma lavoro per via di ipotesi e confermo di essere pronto ad abbandonarli non appena si sia costituito un minimo di tradizione critica. Che significa « arte del tempo allusivo»? Significa che l’immagine non comporta un tempo, una processualità propri, ma rinvia a un tempo immaginario. Dicevo già in quegli articoli che, in un certo senso, si inverte il meccanismo comunicativo dei mass media. Il « medium » moltiplica le forme per fermare un’immagine stereotipata. I giovani artisti fermano un’immagine per innescare il processo « allusivo » dell’immaginario. Se è vero che per questi pittori è importante la complementarità dei linguaggi (fumetto, fotografia, pittura, e via dicendo), nel loro lavoro riveste un’importanza fondamentale la pratica manuale: è in essa che si materializzano il tempo, la durata, il farsi realizzativo – fantastico dell’immagine.
Gli anni ’60 hanno destrutturato il linguaggio. La fine degli anni 70 ferma l’immagine per lasciarla lievitare. Scrive Davide Benati: «Sono un contenitore di immagini. E quel che più conta: rimosse ». E Antonio Faggiano: « …è questo un gioco che non ho inventato io. Esiste e resiste da quando il fascino dell’immagine scambia il suo plusvalore col desiderio, col fantastico, con l’ironico, in una parola col necessario ». L’artista ha immagazzinato troppe immagini, è un « contenitore » di immagini: è venuto il tempo di lasciarle depositare. Chiaramente, una poetica come questa finisce per imbattersi nel problema dell’immagine dipinta, il rebus più affascinante e insolubile dell’arte degli ultimi anni. Fino a che punto è giustificata la sua presenza nel quadro della produzione di immagini mass-mediale? E come può articolarsi questa sua presenza?
Omar Galliani
Il problema della pittura presenta due aspetti complementari: un dubbio di specie storico-antropologica; e un quesito specificamente attinente alle formulazioni di poetica. In questa seconda accezione, la pittura ha toccato recentemente le polarità opposte. Da un lato, con l’immagine di origine pop, ha tentato un’apertura totale verso l’iconicità mass-mediale, si è proiettata verso l’esterno, verso l’eteronomia dell’arte, si è fatta carico di un massimo di funzione comunicativa. D’altro lato, con la nuova pittura, ha operato una chiusura totale al reale, si è barricata nel fortilizio dell’autonomia dell’arte; assumendo valenze analitiche, ha rinunciato ad ogni funzione comunicativa. La potenziale novità dei giovani artisti risiede nel superamento di queste polarità dialettiche. Essi non intendono essere né « comunicativi » né analitici, o per meglio dire perseguono le due strategie contemporaneamente. Concepiscono la pittura come piacere privato, con la massima disponibilità realizzativa, e rifiutando poetiche settorializzate. Si tratta di una forma di sincretismo o di eclettismo? Non credo. A me pare invece che, rifiutando il secondo corno del dilemma di cui parlavo prima, essi risolvano il primo, fondamentale quesito. Rifiutando una precisa formulazione di poetica, offrono un senso storico alla pratica pittorica. L’assenza di una gnoseologia « razionale », e l’ipostatizzazione della pratica pittorica come piacere privato, statutizzano una nuova gnoseologia. La soluzione del problema, essi sostengono, non era di tipo settorial-disciplinare, ma di tipo antropologico. L’assenza di poetiche è già una poetica: la poetica dell’es/srenza della pittura.
Ed ecco allora spiegati i fogli del diario privato di Faggiano, questa immaginistica infantile fatta di reperti, di ritagli, di incollature, questa ricerca di archetipi individuali nella laguna fluttuante di archetipi inevitabilmente collettivi. L’infantile coincide con l’umano, non con il puerile: e l’arte è il ponte fra una regressione che assume i caratteri della fuga, e la sua realizzazione, cioè la sua formulazione (formalizzazione) « razionale ». Se dovessi pensare a un precedente diretto per una simile operazione, citerei le acute operazioni di Alighiero Boetti, sicuro genitore di molte esperienze attuali. Dipenda o meno dalla giovane età degli artisti (ma personalmente credo che si tratti del taglio operativo di tutta una generazione), la componente «regrediente» e infantile è presente in molti artisti. La si ritrova in Davide Benati che dipinge larve di forme (la parola inglese shapes è più appropriata e pregnante) su tele flosce. Il supporto, fluido come appunto l’inconscio, accoglie accenni a oggetti del passato, cioè del profondo, e lo spunto viene offerto da immagini normali, quotidiane. Per la pittura è un primo passo esemplare: il quotidiano torna ipotesi, « fantasma » (nell’etimologia greca), e il fantasma, da ipotesi « dal » reale diventa ipotesi « del » profondo.
Aldo Spoldi
La si ritrova, la componente regrediente, in Aldo Spoldi, che a mio avviso ha ascendenze inglesi (fra Blake e Tilson), e infatti cita continuamente la letteratura anglosassone, da Dickens a Jerome K. Jerome. Con tecnica acuta, commenta una garbatissima tradizione di humour; poi rompe l’immagine fino a costringerla in una bidimensionalità « cubista-pop »; e non si vergogna di lasciar trapelare un’ingenuità che coincide con la stessa volontà di fare arte (kunstwollen, perché no?), un’ingenuità che si identifica con il piacere di una scatola di matite colorate. Perché la frattura dell’immagine e la bidimensionalità? Perché la terza dimensione, la profondità, la prospettiva sono archetipi di una volontà di possesso sul mondo, della centralità umanistica, del « potere » sulle cose. E qui si tratta invece solo di assaporarle, le cose, di guardarle, di fermarle, dallo « small corner » del proprio osservatorio. Quanto a Roberto Caspani, ecco un altro artista che frattura l’immagine in diverse cornici: non ci avvieremo all’epoca della « cornice articolata »? In lui, l’immaaine, ottenuta con processi tecnici che lasciano un ampio margine alla casualità, è però astratta, ai limiti dell’eleganza. Siamo di fronte non tanto a un discendente della linea concretistica, quanto a un curioso, analitico osservatore dei processi costitutivi della forma. Il miracolo della pittura, ancora una volta: con quel tanto di nevrosi, di maniacalità che l’operazione oggi comporta.
Poi, esponiamo gli artisti del « tempo reale ». Gli artisti, in altre parole, che non fermano un’immagine destinata a dilatarsi per suggestioni « allusive », ma realizzano un’immagine che vive, si dimensiona e si precisa nel tempo. Un tempo reale, che relativisticamente assume di volta in volta valenze espressive diverse: può identificarsi con percorsi di tipo spaziale, e coincidere quindi con il processo strutturale dell’immagine; può essere un tempo di elaborazione dell’immagine stessa, e proporre in chiave nuova l’iterazione costitutiva della rappresentazione; può essere un tempo mentale- culturale di riflessione sul passato in flagrante rapporto con l’attualità, un passato che si identifica disciplinarmente con la storia dell’arte; può essere infine il tempo del disimpegno, della costruttività gratuita, della « coazione a ripetere » i gesti del quotidiano. « Tempo reale » significa prima di tutto « spazio reale ». Questo è l’insegnamento fondamentale che ci deriva dalle esperienze neoavanguardistiche degli anni passati, esperienze che trovano nel lavoro dei giovani parziali conferme, e quindi parziali successi. È esemplare, in tal senso, il lavoro di Marcello Landi, un artista emiliano legato per sottili vie alle esperienze di Vittorio D’Augusta. Landi si gioca su un difficilissimo bilico di estenuata manualità e di ermetismo. Il suo è un lavoro per « via di togliere », una sottrazione programmatica dell’ingombrante e dell’inutile, fino ad arrivare al punto magico nel quale l’immagine comunica (se stessa), senza un aggettivo, un i monema, un fonema, una lettera di troppo. Tocca e accosta materie, « segna » di graffiti alchemici muri usurati dal tempo, come un rarefatto camuno passato per caso nell’era della iper-comunicazione. Il massimo di comunicatività con il minimo di realizzazione: si tratta, del ‘ resto, di un passaggio « classico » dell’arte contemporanea. I A me pare che sia di specie « reale » anche il tempo implicito nel’immagine dipinta di Valerio Cassano. Non mi soffermerò sul soffio di « poesia » (del resto non mascherato, neppure nel testo pubblicato in catalogo: la parola sta tornando di moda) che alita nel suo quadro, lasciandolo al gusto del visitatore. Invito invece a riflettere sulla struttura della tela: sul fondo bianco — spazio virtuale e totale — prendono posto ritagli dipinti con forme animali, citazioni, motivi grafici neoliberty. Siamo di fronte a un doppio ordine di considerazioni: la pittura «dipinta », lo sfondamento della bidimensione, si sovrappone alla « superficità », appunto al campo potenziale della tela bianca. Mentre sonda le possibilità specifiche della propria operatività (l’illusione espressiva), la pittura cerca un suo posto nel reale, concretizzato nella tela bianca. Sono considerazioni alle quali non mi pare estraneo il precedente storico di Lucio Fontana.
La tematica della finzione è centrale anche nell’artista barese Michele Carone (in questi anni, la situazione barese è stata particolarmente fertile). Ricordo esemplarmente un suo lavoro nel quale uno schermo ospita due ombre apparentemente uguali: in realtà, una è « vera » (l’ombra di una macchina fotografica) mentre l’altra è « finta » (la proiezione di una diapositiva con un’ombra). Siamo insomma di fronte ai temi del mito di Zeusi e Parrasio, un tema sul quale Carone torna ripetutamente. Non conosco in questo momento il lavoro che verrà eseguito in mostra da un altro artista barese, Luigi Giandonato. Se, come mi è stato annunciato, esso avrà uno spunto naturalistico (due montagnole di creta, in una delle quali sono confitti degli uccelli mentre l’altra è perforata da contenitori per metà pieni di mercurio), mi pare che siamo in una linea poveristica volta però a significati intimistico – alchemici, con forti influssi junghiani: ciò che torna con il lavoro precedente dell’artista. E del resto, che la componente poveristico – irrazionale tornasse a galla, dopo il purismo degli anni andati, era prevedibile. Infine, c’è il caso già brillante di Omar Galliani. È difficile trovare fra i giovani un lavoro che, come il suo, esemplifichi la teoria di Argan secondo la quale « tutta l’arte moderna è riducibile a processi d’analisi sulla struttura dell’arte ». Se nonché, io non esagererei neppure nel vedere in Omar Galliani un semplice discendente della linea metalinguistica. Viceversa, mi pare che egli abbia una sapienza immaginativa, un’acutezza nella progettazione dell’immagine, una sensualità nella manipolazione e nell’accostamento dei materiali, da farne uno sperimentatore abbastanza lontano dai canali precostituiti. Poiché, come si diceva, l’arte contemporanea oscilla fra linguaggio e metalinguaggio, Omar Galliani parte da argomentazioni metalinguistiche, ma arriva a conclusioni pienamente coinvolte nell’elaborazione della forma. Se mi si passa il riferimento corporativo, linguaggio e metalinguaggio sono i poli entro cui oscilla anche il lavoro critico. I momenti di bonaccia invitano a un metalinguismo alla seconda potenza (la critica è già metalinguaggio); mentre il cambiamento spinge a misurare le parole con le cose. Questa mostra sembra anticipare un passaggio favorevole. Se vorrà, il critico avrà materiale sufficientemente nuovo per evitare un metalinguismo che confina paurosamente con il vaniloquio. A questo punto, la scelta spetta solo a lui.
Flavio Caroli
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Mostre Milano – arte contemporanea:
anno 1979
Il nuovo Contesto a cura di Flavio Caroli
con gli artisti:
Davide Benati, Michele Carone, Roberto Caspani, Valerio Cassano, Antonio Faggiano, Omar Galliani, Luigi Giandonato, Marcello Landi, Aldo Spoldi
MAE Milano Arte Expo [email protected] ringrazia Fondazione Marconi Arte Moderna e Contemporanea di Milano – e particolarmente Giorgio Marconi – per la documentazione e il testo di Flavio Caroli, curatore dell’expo, messa a disposizione sulla mostra del 1979 Il nuovo Contesto allo Studio Marconi.
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