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Arte giapponese contemporanea a Roma e a Milano

Creato il 04 ottobre 2011 da Milleorienti

Due eventi affascinanti per i “nipponofili” di caasa nostra. Prosegue fino al 23 ottobre 2011 l’interessantissima mostra di cinque fotografe giapponesi Mizu no Oto – Il suono dell’acqua al MACRO Testaccio nell’ambito di FotoGrafia-Festival internazionale di Roma. Mentre al Museo del Novecento di Milano è aperta fino al 15/01/2012 la mostra dedicata al grande scultore Kengiro Azuma.

Cominciamo con la mostra fotografica di Roma. L’elemento dell’acqua è il legante che unisce il lavoro di 5 autrici, artiste affermate

Arte giapponese contemporanea a Roma e a Milano

Squid Mask, from the series of “Out of Ark”, 2008 /courtesy of the artist and G/P gallery, Tokyo, 2011

sulla scena internazionale e giovani emergenti, che ben rappresentano, nelle loro declinazioni pur così diverse, le linee più interessanti della fotografia Giapponese degli ultimi anni. Sulla scia del tema del festival di quest’anno, Motherland, la mostra Mizu no Oto – Sound of Water vuole tracciare le linee di una sensibilità che si esprime nell’attenzione alle piccole cose, in un legame profondo con la natura e con il fluire dell’esistenza attraverso un’immagine chiave per l’arte Giapponese, dalla Grande Onda di Hokusai fino alle onde in primo piano di Asako Narahashi: l’acqua come elemento energico e vitale, l’acqua come metafora del ciclo e della ciclicità dell’esistenza.

Non necessariamente presente in senso letterale, l’acqua ci rimanda a una visione liquida, a una fluidità che crea punti di contiguità fra stati visivi, emozionali, fra microcosmo e macrocosmo, reale e immaginario, personale e universale, e si fa portatrice di risonanze cariche di potere metaforico e poetico.

Arte giapponese contemporanea a Roma e a Milano

Futtsu, from the series: “Half Awake and Half Asleep in the Water”, 2001 / © Asako Narahashi, courtesy Galerie Priska Pasquer, Cologne

È questo piano di rapporto alla realtà, una concezione della vita e del destino già sempre proiettati in una dimensione di oltranza, che lega ancora queste artiste con quanto Szarkowski aveva ben focalizzato nella prima grande mostra di fotografia contemporanea giapponese realizzata fuori dal Giappone, e da lui curata nel 1974 insieme a Shôji Yamagishi al MOMA di New York, New Japanese Photography: l’esperienza immediata. “La qualità di maggiore rilevanza per la recente fotografia giapponese risiede nell’attenzione nel descrivere l’esperienza immediata: la maggior parte di queste immagini ci impressiona non in quanto commento all’esperienza, o ricostruzione di questa in qualcosa di più stabile e duraturo, ma in quanto evidente surrogato dell’esperienza stessa, realizzato certamente con un’intenzionale mancanza di riflessione”.

Un’esperienza estatica, uno stato psichico di sospensione, alla ricerca dell’immediatezza e dell’inconsapevole: sensazioni, percezioni, immagini da cui si è colpiti e che entrano in contatto con la più profonda interiorità dell’individuo. Per Lieko Shiga “fare fotografie non è come sparare, al contrario: è come essere colpiti. Io sono colpita e l’intera sequenza della mia vita è resuscitata nella fotografia. La fotografia è rimettere in scena il tempo eterno e la vita eterna”. Se da un lato questa relazione col continuo fluire dell’esperienza e dell’esistenza ci riporta a un presente costante, come osserva David Chandler nella sua postfazione all’ultimo libro di Rinko Kawauchi, Illuminance, riguardo al suo rapporto con la memoria, e a quel rapporto epidermico, fatto di eventi dalla consistenza epifanica, che ci raccontano le fotografie di Mayumi Hosokura, dall’altro questo non significa eludere un’intenzionalità ben presente e che si chiarifica nelle giocose messe in scena di Yumiko Utsu.

Le immagini di queste cinque fotografe e il loro approccio fluido si mantengono così, quasi magicamente, in stato di delicato bilico rispetto al reale costruendo delle trame narrative che aprono a possibilità poetiche e poietiche dell’esistenza che pur lontane da qualsiasi oggettività di stampo occidentale, non prescindono da un dialogo aperto e a tratti anche ironicamente esplicito con l’occidente.

E veniamo alla mostra milanese dedicata allo scultore Kengiro Azuma, che pone al centro la scultura in gesso Mu realizzata dall’artista giapponese nel 1961. Questa data segna un momento fondamentale nel percorso artistico di Azuma, e precisamente  il passaggio da una pratica figurativa, atta a emulare la scultura di Marino Marini, suo maestro a Brera, a una espressione più autonoma, astratta.
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In questi anni Azuma, incoraggiato anche dallo stesso maestro, è alla ricerca di nuove forme e l’ispirazione arriva casualmente, come racconta nei suoi aneddoti l’artista, osservando una catasta di cassette di legno per la frutta in cui riesce a cogliere una cadenza ritmica tra “pieni” e vuoti, che da quel momento caratterizzeranno la sua produzione, per l’appunto intitolata “Mu” che in giapponese rimanda al concetto di “vuoto”. Da quel momento Azuma inizia a creare veri propri assemblaggi con l’accostamento di listelli di legno delle stesse cassette da cui, a volte, trae delle sculture in gesso su cui poi interviene con piccoli segni o fori. La scultura Mu è affiancata da un olio, Mu 0.6 e da un’altra serie di opere, sempre del 1961, alcune delle quali di proprietà dell’artista, altre di proprietà delle civiche raccolte del Comune di Milano.

 


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