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Arthur rimbaud poesie iii

Creato il 13 luglio 2013 da Marvigar4

Poésies

ARTHUR RIMBAUD

POESIE

Traduzione dall’originale in francese Poésies  

di Marco Vignolo Gargini

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OFELIA

(Ophélie)

I

Sull’onda calma e nera dove dormono le stelle

la bianca Ofelia come un gran giglio fluttua,

fluttua molto lentamente, distesa nei suoi lunghi veli …

- Nei boschi lontani s’odono degli hallalì .

 

Sono mille anni e più che la triste Ofelia

scorre, bianco spettro, sul lungo fiume nero.

Sono mille anni e più che la follia sua dolce

mormora una romanza nella brezza della sera.

 

Il vento bacia i suoi seni e allarga in corolla

i suoi grandi veli mollemente ninnati dalle acque;

i salici in un brivido piangono sulla sua spalla,

si piegano le canne sul sogno della sua fronte ampia. 

 

Le ninfee sgualcite attorno a lei sospirano;

lei talvolta desta, in un ontano che dorme,

un nido da cui spicca un piccolo fremito d’ali:

- un misterioso canto discende dagli astri d’oro.

 

II

O pallida Ofelia! bella come la neve!

sì, moristi fanciulla, da un fiume travolta!

è che i venti delle alte cime di Norvegia

t’avevano sussurrato dell’aspra libertà;

 

è che un soffio, torcendo la tua ampia chioma,

al tuo spirito sognante recava strani scrosci;

è che il tuo cuore ascoltava il canto della Natura

nel pianto degli alberi, nei sospiri delle notti;

 

è che la voce dei folli mari, in un rantolo immenso,

infrangeva il tuo seno virgineo, troppo umano e troppo dolce;

è che un mattino d’aprile, un bel cavaliere pallido,

un povero pazzo, si sedette muto alle tue ginocchia.

 

Cielo! Amore! Libertà! che sogno, o povera Folle!

tu ti scioglievi a lui come neve al fuoco:

le tue grandi visioni strozzavano la tua voce,

- e l’Infinito atterrì i tuoi occhi azzurri!

 

III

- E il Poeta dice che ai raggi delle stelle

tu vieni di notte a cercare i fiori che cogliesti,

dice che ha visto sull’acqua, nei suoi lunghi veli distesa,

la bianca Ofelia come un gran giglio fluttuare.

 

15 maggio 1870

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IL BALLO DEGLI IMPICCATI

(Bal des pendus)

Alla forca nera, bel moncone,

ballano, ballano i paladini,

i secchi paladini del diavolone,

gli scheletri dei Saladini.

 

Messere Belzebù tira per la cravatta

i suoi fantocci neri che fan smorfie in cielo,

e, appioppandogli una ciabattata in faccia,

li fa ballare, ballare al suono d’una piva! 

 

E i fantocci scossi incrociano i braccini:

come organi neri, i petti a traforo 

che usavan tener strette le gentili damigelle,

si urtano a lungo in un orrido amore.

 

Urrà! i gai ballerini che non hanno più pancia!

Possono far capriole, così lunghi i trespoli! 

Hop! non si sappia se c’è battaglia o danza!

Belzebù arrabbiato gratta i suoi violini!

 

O duri talloni, non usate mai i sandali!

Quasi tutti han lasciato la camicia di pelle;

il resto non imbarazza e si vede senza scandalo.

Sui crani, la neve piazza un bianco cappello:

 

Il corvo fa pennacchio su queste teste fesse,

un brandello di carne balla sul loro mento magro:

sembrano, in turbinio di fosche mischie,

dei prodi, rigidi, che cozzano con armi di cartone.

 

Urrà! Il vento fischia al gran ballo degli scheletri!

La forca nera mugghia come un organo di ferro!

I lupi le rispondono dalle foreste viola:

All’orizzonte il cielo è d’un rosso infernale…

 

Olà, scrollatemi questi funebri spacconi

che sgranano, sornioni, coi loro ditoni spezzati

un rosario d’amore sulle pallide vertebre:

non c’è un convento qui, trapassati!

 

Oh! ecco che in mezzo alla danza macabra

schizza nel cielo rosso un gran scheletro pazzo

portato dallo slancio, come un cavallo s’impenna :

e, sentendosi ancora la corda stretta al collo,

 

contrae i suoi ditini sul suo femore che crocchia

con delle grida simili a sghignazzate,

e, come un saltimbanco che rientra nella baracca,

rimbalza nel ballo al canto delle ossa.

 

Sulla forca nera, bel moncone,

ballano, ballano i paladini,

i secchi paladini del diavolone,

gli scheletri dei Saladini.

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IL CASTIGO DI TARTUFO

(Le châtiment de Tartufe)

Attizzando, attizzando il suo amoroso cuore sotto

la sua casta veste nera, felice, la mano guantata,

un giorno che se ne andava, spaventosamente dolce,

gialla, sbavando la fede dalla sua bocca sdentata;

 

un giorno che se ne andava, “Oremus,” – un Cattivo

lo piglia rudemente per il suo benedetto orecchio

e lo ricopre di parole orribili, strappando

la casta veste nera dalla sua pelle umidiccia!

 

Castigo!… I suoi abiti son sbottonati,

e il lungo rosario di peccati rimessi

si sgrana nel suo cuore, San Tartufo sbiancò!…

 

Allora lui si confessava, pregava, con un rantolo!

L’uomo s’accontentò di prendergli il bavero…

- Puah! Tartufo era nudo dalla testa ai piedi!



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