Arthur rimbaud poesie xiv

Da Marvigar4

ARTHUR RIMBAUD

POESIE

Traduzione dall’originale in francese Poésies

di Marco Vignolo Gargini

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LE PRIME COMUNIONI

(Les Premières Communions)

I

Davvero, sono stupide queste chiese paesane

dove quindici laidi marmocchi insudiciano i pilastri

ascoltando, arrotando i chiacchiericci divini,

un nero grottesco su cui fermentano le suole:

ma il sole fa ridestare, attraverso le foglie,

gli antichi colori delle vetrate irregolari.

La pietra ha sempre l’odore della terra materna.

Vedrete dei mucchi di questi ciottoli terrosi

nei campi in fregola che fremono solenni,

e vicino al grano gravido, nei sentieri d’ocra,

questi arboscelli arsi dove la prugnola si fa blu,

dei grovigli di gelsi neri e dei rosai stercorari.

Ogni cent’anni questi granai sono resi rispettabili

da un intonaco d’acqua azzurra e latte cagliato:

se dei grotteschi misticismi sono rimarchevoli

accanto alla Nostra Signora o al Santo impagliato,

le mosche che sanno di locanda e di stalle

si rimpinzano di cera sul pavimento assolato.

I bambini sono anzitutto figli della casa, famiglia

dalle cure ingenue, dai lavori abbrutenti;

escono, dimentichi che la pelle formicola loro

là dove il Prete di Cristo ha appiccicato le sue dita possenti.

Al Prete gli pagano un tetto in ombra per una pergola

perché lasci a brunire al sole tutte quelle fronti.

Il primo abito nero, il più bel giorno, quello delle torte,

sotto il Napoleone o il Tamburino

o qualche miniatura dove figure di Giuseppe e di Marta

tiran fuori la lingua con un eccessivo amore

che unirà, nel giorno di scienza, due carte,

questi soli dolci ricordi che gli restan del gran Giorno.

Le ragazze vanno sempre in chiesa, contente

di sentirsi chiamare zoccole dai ragazzi

che fanno i bulli dopo la Messa o i vespri cantati.

I ragazzi già destinati all’eleganza delle guarnigioni

sfottono al caffè le casate importanti,

tutti azzimati, e berciano canzoni volgari.

Intanto il Curato sceglie per i suoi fanciulli

dei santini; nel chiuso, dopo i vespri, quando

l’aria s’empie nasale di lontane danze,

lui sente, a dispetto dei divieti celesti,

ebbre le dita dei piedi e il polpaccio tenere il ritmo;

La Notte giunge, nero pirata sbarcando nei cieli d’oro.

II

Il Prete ha scelto tra i catecumeni

raccolti dai Sobborghi o dai Quartieri Ricchi,

una bimba sconosciuta, dagli occhi tristi,

dalla fronte gialla. I suoi genitori sembran miti portieri.

“Nel gran Giorno, segnandola tra i Catecumeni,

Dio farà nevicare su questa fronte le sue acque benedette.”

III

La vigilia del gran Giorno, la bimba si ammala.

Meglio che nell’alto della Chiesa dai funebri rumori,

il brivido giunge subito, – il letto non è affatto frivolo, -

un brivido sovrumano che rimescola il sangue: “Io muoio…”

E, come furto d’amore fatte alle sue stupide sorelle,

lei conta, abbattuta e le mani sul suo cuore,

gli Angeli, i Gesú e le sue nitidi Vergini

e, con placidità, la sua anima ha bevuto tutto il suo vincitore.

Adonài… – Nelle desinenze latine,

cieli di verde marezzati bagnano le Fronti vermiglie,

e macchiati dal sangue puro dei celesti petti,

grandi lenzuola nevose calano sui soli!

Per le verginità presenti e future

lei morde nella frescura della tua Remissione,  

ma più dei gigli d’acqua, più delle confetture,

i tuoi perdoni son di ghiaccio, o Regina di Sion!

IV

Poi la Vergine non è che la vergine del libro.

Gli slanci mistici si infrangono talvolta…

E viene la miseria delle immagini, che ricopre

la noia, atroci miniature e vecchie incisioni;

Curiosità vagamente impudiche

spaventano il sogno dei casti azzurri

che si stupisce intorno alle celesti tuniche

del panno con cui Gesù vela le sue nudità.

Lei vuole, lei vuole, tuttavia, l’anima sconvolta,

la fronte nel guanciale scavato dalle grida sorde,

prolungare i lampi supremi di tenerezza,

e sbava… – L’ombra riempie le case e i cortili.

E la bambina è sfinita. Si agita, inarca

i fianchi e con una mano apre la tenda blu

per avere un poco del fresco della camera

sotto le coperte, verso il suo ventre e il suo petto in fuoco…

V

Al suo risveglio, – mezzanotte, – la finestra era bianca.

Davanti al sonno azzurro delle tende di luna,

la visione la coglie dei candori domenicali;

aveva fatto un sogno rosso. Lei sanguina dal naso,

e sentendosi molto casta e piena di fiacchezza,

per assaporare in Dio il suo amore che torna,

lei ha sete della notte in cui s’esalta e si prostra

il cuore, sotto l’occhio dei dolci cieli, nel riconoscerli;

la notte, Vergine-Madre impalpabile, che bagna

tutti i giovani affanni dei suoi silenzi grigi;

lei ha sete della notte forte dove il cuore che sanguina

fa scorrere inespressa la sua rivolta senza grida.

Eleggendola Vittima e piccola sposa,

la sua stella la vide, una candela tra le dita,

scendere nel cortile dove s’asciuga una blusa,

bianco spettro, e far sorgere gli spettri neri dei tetti.

VI

Trascorse la sua notte santa nelle latrine.

Verso la candela, dai fori del tetto colava l’aria bianca,

e qualche vite folle dalle annerite porporine,

che cadeva al di qua d’un cortile vicino.

Il lucernaio faceva un cuore di viva luce

nel cortile dove i plumbei cieli placcavano d’oro vermiglio

i vetri delle finestre; i lastrici che puzzavan di lisciva

soffrivano l’ombra dei muri zeppi di sonni neri.

. . .  

VII

Chi narrerà quei languori e quelle immonde pietà,

e l’odio che le verrà, o sporchi mentecatti

che deformate ancora il mondo con il travaglio divino,

quando la lebbra alla fine mangerà questo dolce corpo?

. . .

VIII

E quando, avendo ingoiato tutti i boli isterici,

lei vedrà, nelle tristezze della felicità,

l’amante sognare in bianco milioni di Marie,

al mattino della notte d’amore, con dolore:

“Sai tu che ti ho fatto morire? Io ho preso la tua bocca,

il tuo cuore, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che avete;

ed io, io sono malata: Oh! io voglio che mi si stenda

tra i Morti abbeverati dalle acque notturne!

“Ero molto giovane, e Cristo ha sporcato i miei aliti.

Mi ha riempito di disgusto fino alla gola!

Tu baciavi i miei capelli profondi come lane,

e io mi lasciavo andare… Ah! va bene, vi sta bene,

“Uomini! che non immaginate che la più innamorata

è, nella sua coscienza morsa da ignobili terrori,

la più prostituita e la più addolorata,

e che tutti i nostri slanci verso di voi sono errori!

“Perché la prima Comunione è ormai passata.

I tuoi baci, io non posso averli mai saggiati:

e il mio cuore e la mia carne dalla tua carne abbracciata

formicolano del bacio putrido di Gesú!”

IX

Allora l’anima guasta e l’anima desolata

sentiranno scorrere le tue maledizioni.

Si saranno adagiati sul tuo Odio inviolato,

sfuggiti, per la morte, alle giuste passioni,

Cristo! o Cristo, eterno predatore di energie,

Dio che per duemila anni votasti al tuo pallore,

inchiodate al suolo, per l’onta e le cefalee,

dove son riverse, le fronti delle donne in dolore.

Luglio 1871  

LE CERCATRICI DI PIDOCCHI  

(Les chercheuses de poux)

Quando la fronte del bambino, piena di rossi tormenti,

implora lo sciame bianco dei sogni indistinti,

vicino al suo letto vanno da lui due leggiadre sorelle

con dita fragili dalle unghie argentine.

Fanno sedere il bambino davanti al finestrone

aperto dove l’aria azzurra bagna un groviglio di fiori,

e nei suoi capelli grevi su cui cade la rugiada

passano le loro dita fini, terribili e graziose.

Lui ode cantare i loro aliti accorti

che olezzano di miele lungo vegetale e di rose,

e che talvolta un sibilo interrompe, salive

riprese sulle labbra o brama di baci.

Ascolta le loro ciglia nere sbattere nel silenzio

profumato; e le loro dita elettriche e dolci

fanno crepitare tra le sue grigie indolenze 

sotto l’unghie regali la morte dei pidocchi.

Ecco che in lui sale il vino dell’Indolenza,

sospiro d’armonica che potrebbe delirare;

il bambino sente in sé, secondo la flemma delle carezze,

sorgere e morire senza sosta un desiderio di pianto.

IL BATTELLO EBBRO

(Le bateau ivre)

Poiché io scendevo i Fiumi impassibili,

non mi sentii più guidato dai tiranti:

li avevan bersagliati dei Pellerossa striduli,

inchiodati nudi ai pali colorati.

Io ero incurante d’ogni equipaggio,

portavo garni fiamminghi e cotoni inglesi.

Quando con i miei tiranti finirono i rumori,

i Fiumi m’han lasciato andare dove volessi.

Nello sciabordare furioso delle maree,

io, l’altro inverno, più sordo dei cervelli infantili,

io corsi! E le Penisole senza ormeggi

non hanno subito gazzarre più trionfanti.

La tempesta ha benedetto i miei risvegli marittimi.

Più leggero di un sughero ho danzato sulle onde

che si chiamano eterni rollii delle vittime,

dieci notti, senza rimpiangere l’occhio scialbo dei fari!

Più dolce che ai bambini la polpa di acidule mele,

l’acqua penetrò verde il mio scafo d’abete

e dalle macchie di vini blu e di vomiti

mi lavò, disperdendo il timone e l’ancora.

E da allora io mi sono bagnato nel Poema

del Mare, infuso d’astri e lattescente,

divorante i verdi-azzurri dove, galleggiamento livido

e rapito, un annegato pensoso talvolta discende.

Dove, tingendo d’un tratto i blu, deliri

e ritmi lenti sotto il rutilare del giorno,

più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire,

fermentano i rossori amari dell’amore.

Io so i cieli che scoppiano in lampi, e le trombe

e le risacche e le correnti: io so la sera,

l’Alba esaltata come uno stormo di colombe

e ho visto talvolta ciò che l’uomo ha creduto di vedere!

Io ho visto il sole basso, macchiato d’orrori mistici,

illuminando lunghi coaguli viola,

simili a ottoni di drammi antichissimi

rollando i flutti lontano i loro tremori di persiane!

Io ho sognato la notte verde di nevi abbagliate,

bacio che sale agli occhi del mare con placidità,

la circolazione di linfe inaudite

e il risveglio giallo e blu dei fosfori canori!

Io ho seguito, mesi interi, simili a transumanze

isteriche, l’onda lunga all’assalto delle scogliere,

senza sognare che i piedi luminosi delle Marie

potessero forzare i musi agli Oceani bolsi!

Io ho urtato, sapete, delle Floride incredibili

mescolate a fiori di occhi di pantere di pelle

d’uomini! Degli arcobaleni tesi come briglie

sotto l’orizzonte dei mari, a mandrie glauche!

Io ho visto fermentare le paludi enormi, nasse

dove imputridisce tra i giunchi ogni Leviatano!

Dei crolli d’acqua in mezzo alle bonacce

e le lontane cateratte verso gli abissi!

Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!

Ornamenti orridi in fondo a golfi bruni

dove i serpenti giganti divorati dalle cimici

cadono, da alberi contorti, con neri profumi!

Io avrei voluto mostrare ai bambini queste orate

dell’onda blu, questi pesci d’oro, questi pesci canori.

- Delle schiume di fiori hanno cullato le mie secche

e ineffabili venti m’han dato ali a momenti.

Talvolta, martire stanco dei poli e delle zone,

il mare, il cui singhiozzo addolciva il mio rullio,

montava verso me i suoi fiori d’ombra dalle ventose gialle

e io restavo, come donna in ginocchio…

Quasi isola, sbattendo sui miei bordi i litigi

e gli sterchi di uccelli strepitanti dagli occhi biondi,

e io vagavo, quando attraverso i miei fragili legami

gli affogati scendevano a dormire, all’indietro!

Ora io, battello perduto sotto i capelli delle anse,

gettato dall’uragano nell’aria senza uccelli,

io, cui i Monitori e i velieri anseatici

non avrebbero ripescato la carcassa ebbra d’acqua;

libero, fumante, carico di nebbie viola,

io che bucavo il cielo rossastro come un muro

che porti, confetture squisite per buoni poeti,

dei bicchieri di sole e dei mocci d’azzurro;

io che correvo, macchiato da lunule elettriche,

folle legno, scortato da ippocampi neri,

quando i lugli facevano crollare a colpi di randelli

i cieli ultramarini nelle ardenti voragini;

io che tremavo, sentendo frignare a 50 leghe

la fregola dei Behemot e i fitti Maelstrom, 

filatore eterno di immutabilità blu,

io rimpiango l’Europa degli antichi parapetti!

Io ho visto gli arcipelaghi siderei! e le isole

i cui cieli deliranti sono aperti al vogatore:

- È in queste notti senza fondo che tu dormi e ti esili,

milioni d’uccelli d’oro, o futuro Vigore?

Ma, vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti,

ogni luna è atroce e ogni sole amaro:

l’acre amore m’ha gonfiato di torpori snervanti,

oh, che la mia chiglia schianti! Ch’io vada al mare!

S’io desidero un’acqua d’Europa, è la pozza

nera e fredda dove verso il crepuscolo profumato

un bambino accoccolato pieno di tristezze, lascia

un battello leggero come farfalla di maggio.

Io non posso più; bagnato dai vostri languori, o onde,

prendere la loro scia ai portatori di cotoni,

né traversare l’orgoglio delle bandiere e delle fiaccole,

né nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.



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