La Russia è il più vasto Paese del mondo. I suoi interessi geopolitici si dipanano su uno spazio che va dalle coste del Mar Baltico a quelle del Pacifico; dai ghiacci del Polo Nord alle steppe dell’Asia Centrale. Una tale ampiezza impone a Mosca di pensare e agire su più fronti contemporaneamente. Così, mentre il reso del mondo è concentrato su quanto avviene in Crimea, il gigante eurasiatico , in totale silenzio, muove alcuni significativi passi verso un altro terreno di conquista: l’Artico.
Sul finire dello scorso anno balzava agli onori della cronaca la vicenda della Arctic Sunrise, quell’imbarcazione di Greenpeace che il 19 settembre 2013 ha portato 30 attivisti (tra cui un italiano, Christian D’Alessandro) a protestare di fronte ad una piattaforma di Gazprom contro i danni all’ambiente provocati dalle trivellazioni petrolifere nelle gelide acque del profondo Nord. Per le modalità dell’azione, quella degli “Artctic 30″ non è stata in nulla e per nulla differente dai tanti blitz che negli anni hanno caratterizzato l’attività di Greenpeace. Di diverso, stavolta, c’era l’obiettivo: quella gigantesca piattaforma, fissata al fondale del Mar di Barents, non era semplicemente una piattaforma energetica qualunque, ma il simbolo di una guerra non dichiarata per la conquista dell’Artico.
La militarizzazione crescente
Da quando nel 2011 Putin ha annunciato che “La Russia espanderà la sua presenza nell’Artico” e difenderà “con forza e con decisione” i suoi interessi, perché “Da un punto di vista geopolitico, i nostri interessi nazionali più vitali sono legati all’ Artico”, le notizie in merito ad un progressivo rafforzamento della presenza militare russa nell’estremo Nord si sono susseguite a cadenza quasi mensile.
Se guardiamo solo gli ultimi sei mesi, notiamo che nel settembre 2013 i russi hanno riaperto una vecchia base sovietica sulla maggiore delle Isole della Nuova Siberia; in ottobre alcune unità di ricognizione russe hanno effettuato una serie di missioni di formazione sulla penisola di Kola, nel quadro di un programma sperimentale che simula il combattimento in terreno montagnoso delle regioni polari; in dicembre è stato riattivato un aerodromo situato sull’isola di Kotelny, la più grande presente nel Mare della Siberia orientale. Nel febbraio di quest’anno, la Russia ha annunciato la prossima creazione di un distretto militare ad hoc per la tutela degli interessi nazionali russi nell’Artico. E pochi giorni fa, infine, le autorità militari di Mosca hanno diffuso la notizia che quattro bombardieri strategici Tupolev Tu-95MS pattuglieranno H24 i cieli della regione.
Le rivendicazioni della Russia
La ragione di tanto attivismo da parte russa sta in un semplice fatto. A fine anno i Paesi membri del Consiglio Artico dovranno presentare un dossier alle Nazioni Unite in merito alle proprie rivendicazioni sulle gelide acque polari. In attesa di presentarne uno proprio per il 2015, il Cremlino sta dislocando in zona un nutrito numero di armi e soldati, e con l’approssimarsi della scadenza si accelerano anche le operazioni di dispiegamento. Questo perché le pretese dei vari Stati andrebbero tutte a scapito proprio della Russia, che dell’Artico aspira alla fetta più grande.
Le rivendicazioni avanzate dai russi sull’Artico si basano sull’argomento che le dorsali di Lomonosov e Mendeleev, due giganteschi crinali che corrono sotto l’Oceano Artico, costituirebbero l’estensione della piattaforma continentale della Siberia. Inoltre, Mosca si spinge con le proprie pretese fino al Polo Nord. Ora, secondo la Convenzione Internazionale del Mare del 1982 – che considera l’Artico come un’area su cui nessun paese può vantare pretese territoriali – la sovranità e i diritti di sfruttamento sono estesi fin dove si dimostra che il fondale marino rappresenta un’estensione geologica ininterrotta rispetto alla costa.
Queste dorsali, tuttavia, si estendono troppo lontano dalla piattaforma continentale per giustificare la rivendicazione russa al di là delle 200 miglia della sua Zona economica esclusiva, mentre anche altri Paesi (in particolare Norvegia e Canada) rivendicano il controllo della stessa zona. L’obiettivo dei russi è perciò quello di dimostrare la continuità delle due dorsali con la propria piattaforma continentale, così da legittimare di fronte alle Nazioni Unite il proprio diritto di sfruttamento sull’Artico. Numerose spedizioni scientifiche russe negli ultimi anni hanno cercato di determinare con certezza questo dato. Memorabile, poi, l’operazione con cui nel 2007 i sommergibili russi hanno piantato una bandiera sui fondali del Polo; i media ne hanno parlato nei toni di un’impresa goliardica, ma di fatto l’iniziativa di Mosca creò una nuova fonte di tensione internazionale, in modo apparentemente improvviso.
La partita del Polo
Secondo lo United States Geological Survey, in quell’enorme bacino che va dalla Siberia al Canada ci sono 90 miliardi di barili di petrolio, 47mila miliardi di metri cubi di gas e grandi giacimenti di gas liquefatto, quasi tutti (all’84%) custoditi sotto al mare. Sappiamo che il ghiaccio del Polo Nord si sta sciogliendo a un ritmo superiore alle più pessimistiche previsioni, alimentando il desiderio di quanto vorrebbero lanciarsi vero il profondo Nord per saccheggiarne le ricchezze. Non solo. Con gli specchi di mare progressivamente liberati dalla presenza dei ghiacci, potrebbero nascere nuove rotte marittime e commerciali (come il leggendario passaggio a Nord-Ovest) in grado di fornire scorciatoie più veloci e meno costose rispetto ai tradizionali canali di Panama e Suez. Prospettive che fanno gola a molti. Pertanto, con la geografia della regione artica che sta rapidamente cambiando, anche il clima politico rischia di farsi rovente.
Spie e sottomarini tra i ghiacci
Per i russi l’esplorazione e lo sfruttamento del petrolio polare e di altre risorse consentirebbero al loro Paese di continuare a essere quella che Putin ha definito “una superpotenza energetica”. Ma per il Cremlino la partita è molto più complessa.
Da tempo la ricchezza potenziale dei fondali artici rivendicati dalla Russia ha attirato l’attenzione dell’intelligence degli altri Stati coinvolti. Si sa che il Servizio di sicurezza nazionale (Fsb, l’organismo che è subentrato al Kgb) dispone di una base aerea, la stazione Nagurskaja, sull’isola di Zemlja Aleksandra, la più occidentale dell’Arcipelago della Terra di Francesco Giuseppe. Con la crescente presenza di spie straniere nella regione, si ritiene che una delle ragioni della presenza di una base aerea sull’isola sia quella di monitorare qualunque attività di intelligence straniera possa svolgersi nelle vicinanze. Di più, oltre a sorvegliare l’attività delle agenzie straniere, i russi cercano anche di carpirne i segreti. Due anni fa, in Canada, scoppiò il caso del Sottotenente di Vascello Jeffrey Paul Delisle, ufficiale dei servizi segreti della marina canadese accusato di aver ceduto segreti militari alla Russia, in particolare su come evitare i sensori oceanici che permettono di rilevare i movimenti dei sottomarini nucleari. Lo scorso anno Delisle è stato condannato alla pena di vent’anni di reclusione.
Inoltre, l’Oceano Artico è sempre stato di importanza strategica per la forza sottomarina della Flotta settentrionale russa. Durante la Guerra fredda, le sue acque erano fondamentali per le operazioni in mare aperto dei sottomarini nucleari sovietici e americani. Sotto la coltre di ghiaccio, i sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare (Ssbn) di Mosca pattugliavano i fondali, pronti, in caso di guerra, a lanciare i loro missili contro gli Stati Uniti, mentre i sottomarini nucleari d’attacco americani (Ssn) andavano alla caccia degli Ssbn sovietici.
Caduta la cortina di ferro vent’anni fa, i sottomarini lanciamissili russi operano nel Mare di Barents ancora oggi. La vasta area di fondale artico al di là delle 200 miglia marine che la Russia rivendica è ambito anche per il fatto di essere un’area vasta e lontana nella quale gli Ssbn possono muoversi e nascondersi. Nelle acque profonde sopra le dorsali di Lomonosov e di Mendeleev, i sottomarini sono anche più vicini al continente americano, il che significa una gittata più breve per i missili balistici. Dagli abissi circostanti il Polo, gli ssbn di Mosca possono tenere sotto tiro gli Stati Uniti, bilanciando l’opzione strategica che gli Usa avranno diverse latitudini più a sud, in Europa, quando lo Scudo antimissile della Nato sarà finalmente operativo. Da qui le preoccupazioni di Washington in merito alle pretese dei russi. In proposito, lo scorso 30 gennaio la Casa Bianca ha annunciato un nuovo piano per rispondere alla necessità di far fronte alle sfide strategiche, energetiche e commerciali che lo scioglimento progressivo dei ghiacci del Polo Nord porrà in un futuro molto prossimo agli Stati Uniti.
In conclusione, se la Russia vincerà la sua battaglia per l’Artico, il 60% degli idrocarburi della regione saranno suoi. Ma al tempo stesso potrebbe altresì avanzare la propria profondità strategica fin quasi al territorio degli Stati Uniti. Se in passato l’Artico è stata “l’ultima frontiera della Guerra Fredda” in futuro potrebbe essere quella di una guerra letteralmente glaciale.
* Articolo scritto per The Fielder