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Articolo 18, domanda e lavoro

Creato il 29 settembre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

Quando Renzi tuona che “l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato pensato 44 anni fa”, e pertanto va cambiato e rimosso, si defila dalla sua idea di novità e di cambiamento, perchè giunge come l’ultimo cantore di quella litania che vorrebbe l’abolizione o la modifica dell’articolo stesso, e che esiste da quando esiste quello stesso.

Malgrado le polemiche che da sempre hanno accompagnato questa tutela pesante, che, alla sua origine, faceva sì che il lavoratore licenziato illegittimamente dovesse essere reintegrato sul posto di lavoro, di fatto annullando l’effetto di risoluzione del contratto, soltanto nel 2012 si è giunti ad una modifica, attraverso la riforma del mercato del lavoro attuata dal governo Monti, contenuta di fatto nel provvedimento noto come legge Fornero.

Prima della riforma, l’ottica di protezione che gravava sul lavoratore gli garantiva la riassunzione obbligatoria nel momento in cui egli fosse stato licenziato illegittimamente. Il licenziamento veniva considerato illegittimo quando mancava di giusta causa o di giustificato motivo: non era cioè legata ad un comportamento gravissimo che impediva la prosecuzione del rapporto di lavoro “anche solo per un giorno” (giusta causa), oppure non era causata da un inadempimento grave degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore. Di fatto dunque il datore di lavoro non era libero di licenziare a piacimento, se non si fossero verificati dei motivi che, a dire il vero, sono sempre stati molto larghi e favorevoli al lavoratore: l’unico modo per eliminare il lavoratore percepito come “scomodo”, vuoi per basso rendimento, antipatie personali, e tutti i motivi più turpi che le menti umane possano partorire, era aspettare lo spirare del termine del contratto di lavoro, oppure il verificarsi di una condizione di risoluzione del contratto. Ma poiché il contratto modello dell’epoca era il contratto indeterminato, il termine finale non giungeva mai. Di questo i detrattori dell’articolo 18 hanno detto molto: che limitasse l’arbitrio del datore di lavoro, che fosse una violazione del libero mercato, che fosse una tutela inesistente in altri paesi del mondo e che, in definitiva, fosse dannosissima per la produttività dell’impresa, che invece ha bisogno di poter assumere e licenziare con celerità. In un mondo perfetto senza l’articolo 18, sostenevano e sostengono i detrattori, il licenziato non ha alcun problema a trovare un nuovo impiego, giacchè il mercato del lavoro è aperto e fluido. E’ il modello americano, nel quale i sindacati di fatto non esistono e il lavoratore non ha praticamente alcun mezzo per mostrare le sue rimostranze e avere rappresentati i propri interessi; d’altro canto, seppure egli è esposto continuamente al rischio di perdere il proprio lavoro, e dunque non ha mai garantita quella tranquillità tipica del rapporto di lavoro indeterminato, può trovare un nuovo impiego perfino in pochi giorni.

Nel 2012, dunque, in un periodo di crisi come quello degli ultimi anni, si percepì come fortissima la necessità di dare ragione, almeno in parte, alla fazione favorevole alla fluidità anziché alla sicurezza; fluidità che nei testi e nel gergo comune fu detta “flessibilità” fin dagli anni ’70.
La riforma Fornero di fatto ha previsto, accanto a quella che viene detta “tutela reale piena”, cioè quella antica, del risarcimento e della reintegrazione, una tutela meramente indennitaria: un compenso di denaro dato al lavoratore (variabile tra 6 e 12 mensilità), “in cambio” del suo licenziamento, qualora ricorrano motivi economici che rendano difficoltosa da parte dell’impresa la prosecuzione del rapporto di lavoro. Il rischio, evidentemente, è quello di avere licenziamenti illegittimi mascherati da motivi economici insussistenti, ed è una chiara virata di indirizzo politico verso un modello americano. La tutela reale piena, o reintegrazione, è comunque garantita per tutta una serie di ipotesi, identificate dalla legge oppure che si rifanno all’idea di licenziamento illegittimo, magari comunicato oralmente o senza le formalità richieste, oppure per un motivo, come in passato, non consentito.
Nel maggio di quest’anno giunse un’ennesima modifica al mercato del lavoro già modificato dalla legge Fornero, dietro il piano denominato “Jobs Act” dal governo Renzi, attuata per rilanciare urgentemente l’occupazione in calo. Questa però non tocca l’articolo 18, che è invece tematica caldissima proprio degli ultimi giorni.

La storia degli ultimi anni e non solo, comunque, sembra virare verso una visione precisa: che le politiche di scossa profonda, con modifiche strutturali al mercato del lavoro, sono inefficaci nel momento in cui la domanda non cresce. Modificare il “sistema-lavoro” è una priorità di ogni Governo, che può così fregiarsi di aver almeno cercato di attuare qualcosa di positivo per la crescita e l’occupazione. I risultati innegabilmente sono però stati deludenti. A prescindere dalle tipologie contrattuali disponibili, e dalle modifiche che ad esse possono venire fatte, nel momento in cui la domanda latita, l’imprenditore non assume, ed è incredibilmente rischioso ridurre le tutele per chi è già impiegato, dal momento che una tutela minima funziona, anche sulla carta, solo se è possibile trovare un nuovo impiego in tempi praticamente istantanei: una cosa che in Italia, attualmente, è del tutto impensabile. Si può cercare di alleviare i sintomi, ma se la malattia rimane, questi si ripresentano, ogni volta peggiori.

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