E brava la Vettese che spiega in termini comprensibili gli artisti e il loro ambiente (quanto odio i c.d. critici d’arte che parlano un’ora senza dire niente: guardate che la gente non è stupida, capisce se dietro alle parole c’è solo boria!)
Ci sono molte parti interessanti. Subito, all’inizio, un tentativo di definizione dell’arte. Scordatevi i discorsi sulla perizia esecutiva, la creatività, l’unicità, o, tantomeno, sull’estetica: tutto questo non c’entra una mazza con l’arte.
Arte è, semplicemente, ciò che gli uomini chiamano arte.
Certo, non può prescindere dall’aspetto comunicativo e implica alterità rispetto a ciò che si trova in natura (v. assonanza con “artificiale”), ma questi due aspetti sono propri di tutti i manufatti umani, o quasi.
Accostiamo l’arte alla libertà? O alla capacità di precorrere i tempi? Allora escludiamo dal novero tutte le opere ante-umanesimo create su commissione o eseguite secondo canoni stilistici dettagliatamente inculcati dalla Tradizione (es. i bassorilievi egiziani coi loro profili).
E’ più facile individuare un artista, piuttosto che un’opera d’arte, anche se per farlo si ricorre spesso a una sfilza di stereotipi che gli artisti stessi, sempre in cerca di riconoscimento (necessario), si attaccano addosso come figurine sull’album.
Interessante anche la parte che studia i vari approcci storico-psicologici, il ruolo sociale dell’artista, le tappe della carriera, il mercato…
La mia concezione dell’arte si modifica ad ogni nuovo libro.
Se Benjamin mi aveva convinta che l’arte può essere tecnicamente riprodotta senza perdere molto del suo valore, ora la Vettese mi fa cadere questa piccola certezza: e non solo per le opere monumentali, come possono essere le onde d’acciaio di un Richard Serra o le opere specchiate di Anish Kapoor; ma anche per le opere antiche, quando per esempio chiedevano allo spettatore di spostarsi per svelare le immagini di una chiesa un po’ alla volta.
Ultimo appunto:
Si ritiene che ogni “vera” opera debba dare “un’emozione” a chiunque, al di là di ogni mediazione culturale.
Tanto che se un’opera d’arte contemporanea non ci emoziona né ci fa riflettere, ne deduciamo che è… una cagata (v. Manzoni?) e che l’autore è, nel migliore dei casi, un furbastro.
Sbagliato!
Non esiste un gusto istintivo; il gusto è il risultato di un background culturale (e di solito, dunque, tende al conservatore). Non si può amare ciò che non si capisce, e lo si ama solo nella misura in cui lo si capisce: il livello di affinità che possiamo provare noi davanti a un quadro del medioevo, non è lo stesso che provava un uomo del medioevo che riusciva a individuare la frase precisa del Vangelo a cui l’autore si era ispirato!
Fantastico!