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Asa Larsson: Finché sarà passata la tua ira

Creato il 08 febbraio 2011 da Fabriziofb

Asa Larsson: Finché sarà passata la tua ira

Svezia, oggi.
È una mattina di aprile, quando Osten Marjavaara, sceso al fiume per attingere l’acqua, nota distrattamente una grande forma nera galleggiante; sulle prime pensa a un semplice tronco gonfio d’acqua, ma, avvicinatosi per controllare, riconosce un braccio inguainato in una muta da sub e un volto sfigurato.
Gli uomini della polizia di Kiruna, guidati dalla procuratrice Rebecka Martinsson, non ci mettono molto ad associare il corpo alla giovane Wilma Persson, scomparsa con il fidanzato Simon dal vicino villaggio di Piilijarvi.
Che si tratti di un semplice annegamento? Tutt’altro: le analisi di routine, rivelano che la vittima non è affogata sul luogo del ritrovamento del cadavere, ma nel vicino lago Vittangijarvi, e alcune anomalie riscontrate nel corso dell’autopsia sembrano indicare che si tratti di un omicidio.
Ma che cosa ha portato Wilma ad immergersi nel Vittangijarvi?
E, se si tratta di un omicidio, chi si è preso la briga di uccidere una giovane tranquilla e priva di nemici, da poco tornata in campagna dalla città?

Chi conosce le mie recensioni sa che in genere, quando scrivo, tento di essere il più obbiettivo possibile: intendiamoci, non è che propugni un qualche concetto positivista di oggettività ormai da tempo -e a buon diritto- espunto da quasi tutti gli ambiti della riflessione sull’arte, ma mi pare che, a meno di voler sposare una qualche ingenua teoria istituzionale post-dickieiana (ammettendo, così, che non è il fatto di scrivere buone e oneste recensioni a rendere l’uomo “recensore”, ma è proprio l’essere “recensore” -ovvero lo svolgere un ruolo specifico all’interno di una determinata cornice istituzionale- a garantire la bontà, la correttezza e, verrebbe da dire, l’“infallibilità” delle recensioni; ammissione, questa, in seguito alla quale si avrebbe il diritto non solo di “criticare” sulla sola base del proprio gusto, ma anche di aspettarsi l’assenso incondizionato di ogni lettore e di tutti i lettori), il “resoconto” fondato sul puro gusto personale non offra al lettore alcuna garanzia (se non induttiva, ovvero basata sul confronto tra i propri gusti e quelli espressi dall’autore nel corso delle precedenti recensioni); questo per trascurare la questione, tutt’altro che oziosa, relativa all’utilità o l’inutilità di un certo genere di recensioni fondate sul puro gusto…

Resta poi da dire, che, in un mondo nel quale il “recensore”, si ritrova spesso a svolgere funzione di “pubblicitario” (anche se, sovente, non retribuito), le note di “gusto” -oneste o no- risultano impossibili da smentire, e quindi poco affidabili, ben più adatte alle necessità di mercato rispetto alle osservazioni tecniche che possono, invece, essere immediatamente riconosciute come false, svelando l’incompetenza o, più spesso, la cattiva fede del “critico” di turno.
Detto questo, ci sono casi in cui la nota di gusto può assumere un valore positivamente indiziario: in particolare, quando il recensore è pronto ad ammettere un pregiudizio (nei confronti dell’opera, del suo autore, genere ecc.), smentito nel corso della lettura.
È questo il caso.
Se, per rendere conto di questo romanzo, mi fossi limitato a indicare alcune particolari caratteristiche della narrazione, dicendo, per esempio che l’autrice Asa Larsson inserisce la “voce” di una delle vittime, come controcanto (espresso in prima persona) al racconto principale (esposto, invece, in terza, da un narratore extradiegetico), trasferendo, così, su un piano materiale un duplice indice di perfezione dell’indagine (perfezione “formale”, perché avendo a che fare con un testimone diretto, sia pure in forma di trapassato, la correttezza della soluzione è certa, e, “morale”, perché, il rispetto della memoria della vittima è garantito), o magari avessi puntualizzato sull’irrealtà di alcuni modi di raccontare (penso in particolare alla rievocazione di fatti passati inserita tra due linee di dialogo: chi mai, nella vita reale, parlando con un collega di lavoro, un amico ecc. ricostruisce mentalmente, tra una battuta e l’altra, le comuni esperienze pregresse?), o se avessi steso un generico elogio del modo, della maestria indiziaria, della precisione ritmica con cui l’autrice fa riemergere la “Storia” con la “S” maiuscola dalle pieghe del presente di una piccola comunità rurale, per riportare alla luce segreti da tempo sopiti ecc., sarei riuscito a rendere giustizia a questo romanzo?
Io credo di no.
E di certo avrei dimostrato, nei confronti del lettore, una reticenza semplicemente ingiustificabile.
Sì, perché, se il fatto che un romanzo risulti convincente per l’appassionato di un determinato sottogenere non costituisce una grande testimonianza del valore del testo, e giustifica, anzi, l’insorgere, nel lettore, del dubbio che il recensore, per amore della forma specifica, dell’ambientazione, dei temi ecc., abbia formulato un giudizio affrettato, non condivisibile o eccessivamente bonario, la capacità di convincere un recensore preventivamente ostile sembra un indizio ben più interessante. E di questo, un onesto recensore, deve tenerne conto.
Ora, chi conosce le mie recensioni avrà forse capito che, salvo alcune rare eccezioni (una su tutte l’ottimo John Ajvide Lindqvist), non amo e non leggo volentieri i gialli svedesi; tant’è vero che quasi mai mi è capitato di recensirne. Questo perché, in generale, non ne apprezzo le ambientazioni, i personaggi, lo stile e, spesso, neppure le scelte narrative.
Eppure, aperto il romanzo della Larsson, mi sono sorpreso a divorare un centinaio di pagine in circa 90 minuti, e così via per le ore (poco più di 4 in tutto) necessarie alla lettura, e a ritrovarmi convinto e soddisfatto.
Per questo, limitarmi a citare, a lettura ultimata, i già elencati pregi, mi pare assolutamente insufficiente; anche, perché, come a volte (raramente) succede, qui il totale vale più della somma delle parti: l’intreccio ben congegnato si sposa con personaggi tutto sommato credibili (persino il “peccatore incallito” pronto a imboccare la via della redenzione); l’azione non è molta, ma i tempi morti non si sentono; le descrizioni ci sono ma non pesano; il controcanto costituito dalla “voce della vittima”, che sul principio sembra semplicemente una trovata “curiosa”, si impone, sulla distanza, come soluzione efficace; le eco bibliche di sottofondo, via via più palpabili, in un crescendo che culmina con il ben costruito climax finale, contribuiscono alla creazione dell’atmosfera e, nel complesso, si digerisce persino l’immancabile storia d’amore.
E se non è segno questo che l’autrice sa scrivere, e che il romanzo funziona…


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